Domenica, in Venezuela, si tornerà a votare. E pressoché certo è che vincerà l’uccellino. O meglio: del tutto sicuro – fatte ovviamente salve ultra-sorprendenti svolte, oggi peraltro del tutto impercettibili negli schermi radar dei sondaggi – è che alla fine vincerà il presidente in carica Nicolás Maduro Moros. Vale a dire: l’uomo che, dell’uccellino, non solo ha (con molto dubbia legittimità costituzionale) preso il posto, ma del quale s’è negli ultimi tempi andato proclamando, con mistica ed assai ripetitiva passione, ‘apostolo e figlio’. Piu esattamente: l’uomo al quale l’uccellino s’è giorni fa inopinatamente premurato d’annunciare, non una Immacolata Concezione come, a suo tempo, l’Arcangelo Gabriele alla Vergine Maria, ma una sicura e travolgente vittoria il prossimo 14 di aprile.
L’uccellino è, naturalmente, Hugo Chávez Frías, ex-presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, scomparso lo scorso 5 di marzo, dopo 14 anni d‘ininterrotto ed assai ‘personalizzato’ governo del paese. E del tutto noti sono – grazie, per l’appunto, alla testimonianza dello stesso Maduro – i dettagli del prodigioso evento. Stava Nicolás pregando, tutto solo in una piccola cappella di Barinas (non per caso il villaggio che dette i natali a Hugo Chávez) quando all’improvviso scorse, svolazzando sopra il suo capo, un ‘pajarito chiquitito’, un minuscolo uccellino, presumibilmente un colibrì o, come lo chiamano da quelle parti, un tucusito. Posatosi su una delle travi di legno del tetto della cappella, il piccolo volatile prese ad allegramente cinguettare. E Nicolás – che subito cinguettando gli rispose – non ebbe a quel punto dubbi: il ‘tucusito’ altri non era, in effetti, che la temporanea reincarnazione del ‘líder supremo’ venuto ad annunciargli – lì, nei luoghi che lo videro nascere e crescere – ‘l’inizio della nuova battaglia ed un nuovo immancabile trionfo’.
Questo disse a Maduro quell’uccellino venuto dall’al di là. Ed assai probabile è che la sua lunga ed armoniosa conversazione con quello che, da vivo, lui stesso aveva indicato come suo erede politico, finisca per rivelare, assai presto, una duplice (e paradossalmente contrapposta) valenza profetica. Perché è vero: domenica prossima il “figlio ed apostolo” del ‘líder supremo’ vincerà, nel nome di dio (Chávez) e del padre (sempre Chávez), la corsa presidenziale. Ma la vincerà – lui che è, fisicamente parlando, un vero e proprio gigante – oscurato dall’ombra d’un microscopico colibrì. O più esattamente: dall’ombra d’un processo di esaltata beatificazione – quello del Chávez defunto – che, con la storia del ‘pajarito’, ha infine rivelato, oltre le barriere dell’isteria collettiva e degli estatici accenti della demagogia funeraria, la sua intrinseca (ed essenzialmente ridicola) debolezza.
L’esaltazione della figura di Chávez ha assunto, in queste ultime settimane, ritmi parossistici. ‘Eterno’ è ormai diventato – allorquando ci si riferisce al ‘líder supremo della rivoluzione bolivariana’, altrimenti definito ‘il cristo redentore dei poveri’ – una sorta di obbligatorio standard linguistico. E, nel corso della settimana Santa, la prossima vittoria elettorale è stata senza ritegni annunciata, dalle gerarchie chaviste, come una sorta di replica delle resurrezione cristiana. Anche in Venezuela – come, credo, in tutto il resto del mondo – l’uccellino è però anche (spesso soprattutto) un sinonimo di bugia. ‘Chi te l’ha raccontata questa, un uccellino?’, si usa dire in Venezuela, come in ogni altra parte del pianeta, ai bambini che le sparano grosse. E Maduro – come tutta la cupola governativa che, dallo scorso dicembre, ha accompagnato e protetto dietro una cortina di segreto il lungo addio del grande leader – di grosse ne ha sparate davvero tante. Alcune nutrite soltanto dal silenzio (quello, perdurante, sulla vera natura della malattia che ha colpito il ‘comandante supremo’). Altre già passate in archivio (come la riunione di governo di oltre cinque ore che il Chávez morente, o forse già morto, avrebbe tenuto pochi giorni prima che la sua dipartita venisse annunciata). Altre ancora in fieri (la ribadita certezza che Chávez sia stato assassinato, non da un cancro, ma dalla proditoria ’inoculazione’ d’una malattia elaborata nel laboratori dell’Impero)…
La storia dell’uccellino ha, per molti aspetti, cambiato il corso di questa fulminea (ufficialmente non è durata che 10 giorni) campagna elettorale, dominata dalla immanenza d’un santo. L’ha cambiata non al punto da modificarne gli esiti, ma abbastanza per diradarne, almeno in parte le nebbie.
Forte dell’appoggio di tutti gli apparati di Stato, Maduro batterà Capriles, più o meno come i mulini a vento vinsero la ‘fiera y desigual batalla’ contro di loro lanciata dal Quijote. Nell’inesorabile rifluire della semireligiosa esaltazione che ha seguito la morte di Chávez, probabilmente non raggiungerà (come non li raggiunse il Chávez non ancora beatificato lo scorso 7 di ottobre) i dieci milioni di voti che ha promesso al leader defunto. E forse (cosa che sarebbe l’equivalente d’una sconfitta) persino resterà al di sotto del 55,7 per cento conseguito dal ‘comandante supremo’ sei mesi fa. Ma, oltre ogni percentuale, i veri problemi cominceranno, per lui, quando, da presidente, dovrà fare i conti con la vera eredità del dio di cui è figlio e apostolo. Vale a dire: con il Venezuela autentico e non con il mito – logoro, nonostante lo tsunami di retorica che in questi giorni l’accompagna – della ‘nuova patria socialista’ fondata da San Hugo. Perché in realtà, in questo Venezuela sempre più petro-dipendente, solo l’eresia può salvare il nuovo presidente ed il futuro del paese.
Ma troverà l’apostolo Maduro il coraggio d’uccidere il padre?