La coltivazione di marijuana per uso personale non è reato. E lo si può dimostrare attraverso una interpretazione restrittiva della stessa “Fini-Giovanardi”. Proprio la norma più proibizionista che l’ordinamento italiano abbia conosciuto contiene tra le sue pieghe un via libera a chi, come in un recente caso esaminato dal tribunale di Ferrara, preferisce esercitare il pollice verde tra le mura domestiche piuttosto che scender in strada ad alimentare indirettamente il traffico di stupefacenti della malavita. Lo dice a chiare lettere il giudice Franco Attinà nelle motivazioni alla sentenza con cui ha assolto due giovani arrestati e finiti a processo lo scorso 20 marzo per coltivazione di marijuana.
Nella loro abitazione i carabinieri trovarono 9 grammi e quattro piantine di marijuana, con tanto di materiale per la relativa coltivazione. In sede di arringa difensiva l’avvocato Alberto Zaina del foro di Rimini aveva fatto presente che ci si trovava di fronte a un uso personale della coltivazione dello stupefacente, richiamando in questo senso una normativa del Consiglio d’Europa in favore della non punibilità della condotta. In subordine Zaina avanzava un “sospetto di anticostituzionalità” dell’art 73 del dpr 309 del 1990 (la “Fini-Giovanardi” nel momento in cui punisce la coltivazione) “nel momento in cui equipara inopinatamente derivati della cannabis, oppiacei e cocaina”.
Il giudice Attinà è andato oltre, non rimettendo gli atti alla Corte Costituzionale ma pronunciandosi direttamente con la formula assolutoria “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”. Nelle quattro pagine di motivazioni della sentenza 536 del 2013 viene ricordato come la “sostanza di proprietà dei due imputati fosse impiegata per uso personale”. E questo perché “hanno provato a coltivare le piante in proprio perché stanchi di doversi procurare per strada lo stupefacente, con i rischi connessi e con l’inconveniente di alimentare i traffici della malavita”.
Non c’era insomma dietro a quell’attività alcuna necessità economica che motivasse la volontà di vendere il ‘raccolto’. Il giudice poi si discosta da quello che è l’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione per il quale la coltivazione sarebbe sempre penalmente rilevante a prescindere dall’uso cui è destinato. E nel farlo Attinà attinge all’esperienza di quello che avviene nella vita di tutti i giorni: le argomentazioni della Cassazione “non paiono aderenti alla realtà che nei palazzi di giustizia si sperimenta quotidianamente. Le quantità di stupefacenti in circolazione nella società italiana sono enormi, sicché quattro piantine coltivate in un appartamento da due giovani non possono aumentare in misura apprezzabile tale quantità. Anzi, l’assuntore abituale di stupefacenti – ove si rivolga ai traffici di strada per soddisfare il proprio bisogno – determina un aumento della domanda complessiva e quindi della quantità di sostanza che circola nella collettività”, evitando “di contribuire all’incremento dei traffici legati alla criminalità”.
Viene poi la legge specifica in materia, la “Fini-Giovanardi”, che nell’art. 73 con l’espressione “coltivazione” sembra designare “un’attività che non presenti certe caratteristiche dimensionali minime e non si attaglia agevolmente alla fattispecie di quattro piantine cresciute in vaso al’interno di un appartamento”. Secondo Attinà “una interpretazione restrittiva del termine “coltivazione” appare poi necessaria alla luce del principio di offensività del reato: una volta che si individui il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice nella salute pubblica, nell’ordine pubblico e nella sicurezza pubblica, non si può ritenere che soddisfi il requisito di tipicità una condotta che per il numero delle piante, il luogo di detenzione (chiuso e inaccessibile a terzi), la destinazione al consumo personale è del tutto inidonea ad offendere anche solo in termine di pericolo quei beni”.
Infine “la coltivazione deve avere ad oggetto sostanze stupefacenti e tale caratteristica non si può desumere dalla semplice tipologia di specie di pianta botanica”. Perché il reato sussista è necessario che “le piante presentino una quantità di principio attivo sufficiente ad esplicare un’efficacia drogante. Nel caso di specie nessun accertamento è stato fatto”.
“Riconoscendo l’uso personale – commenta l’avvocato Zaina -, il giudice aderisce alla prospettazione difensiva che richiamava sincronicamente la tesi dell’uso personale della coltivazione che è ammessa in Europa”.