Nelle ultime ore al Quirinale Giorgio Napolitano ha incassato una fondamentale sicurezza: il contenuto delle quattro telefonate in cui colloquia con Nicola Mancino rimarranno segrete. Proprio nelle stesse ore in cui le camere riunite cercano di eleggere il successore di Napolitano, la corte di Cassazione ha messo la parola fine alla lunga e tormentata diatriba delle telefonate tra il quasi ex capo dello Stato e l’ex presidente del Senato, imputato di falsa testimonianza nel processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra.
Gli ermellini hanno quindi respinto il ricorso degli avvocati Roberto D’Agostino e Francesca Russo, legali di Massimo Ciancimino, che avevano chiesto di bloccare la distruzione delle intercettazioni, come invece aveva decretato la Consulta. Un Romanzo Quirinale in piena regola che comincia una calda giornata del giugno scorso. È il settimanale Panorama il primo a “soffiare” che agli atti dell’inchiesta sul patto scellerato tra pezzi delle istituzioni e la mafia c’erano anche alcune chiamate in cui era rimasta impigliata la voce del presidente Napolitano. Ad essere intercettato era l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, indagato dai magistrati della procura di Palermo per falsa testimonianza dopo la sua deposizione al processo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso nel 1995. Dall’inverno del 2011 Mancino bersagliava a ritmo costante il centralino del Quirinale. Ma il suo interlocutore preferito era il consigliere giuridico del Colle Loris D’Ambrosio. Telefonate che per gli inquirenti sono rilevanti, dato che Mancino chiede aiuti istituzionali per essere “coperto” da un’eventuale indagine. Mancino però parla anche con Napolitano. E quelle chiamate tra il capo dello Stato e l’indagato sulla Trattativa Stato-mafia rimangono incise sulle bobine della Dia. La notizia dell’esistenza di quelle intercettazioni finisce sui giornali. E la reazione del Colle non si fa attendere.
È il 16 luglio scorso quando le agenzie battono una notizia che non ha precedenti: il Quirinale decide di trascinare la Procura di Palermo davanti la Corte Costituzionale: nonostante quelle chiamate non siano state mai trascritte, nonostante il pm Nino Di Matteo abbia smentito la notizia che spacciava quelle telefonate penalmente rilevanti (beccandosi in seguito un provvedimento disciplinare), Napolitano avverte un conflitto d’attribuzione di poteri tra lui e le toghe palermitane. Come dire che il Capo dello Stato non può essere intercettato neanche in maniera diretta, ovvero, quando ad essere ascoltato dagli inquirenti è l’interlocutore del Presidente. La Corte Costituzionale procede all’esame del caso a tappe forzate, anzi forzatissime. E a dicembre decreta che quelle intercettazioni devono immediatamente essere mandate al macero.
Dietro l’angolo c’è però lo sgambetto di Massimo Ciancimino, che in quanto imputato nella Trattativa, chiede lecitamente di ascoltare quelle conversazioni. Una richiesta, che dopo due rinvii, la corte di Cassazione ha rigettato. “All’esito dell’ascolto delle quattro conversazioni si è evidenziata l’assenza nel loro contenuto di qualsiasi riferimento ad interessi relativi a principi costituzionali supremi che in qualche modo possano essere irrimediabilmente pregiudicati dalla distruzione delle registrazione” ha detto il giudice. Come dire che Ciancimino Junior non avrebbe potuto trovare elementi per difendersi in tribunale dall’ascolto delle quattro telefonate tra il suo coimputato Mancino e Napolitano. Il quasi ex Capo dello Stato dunque può stare tranquillo: quei compact disc con incisa la sua voce saranno distrutti al più presto. E mentre gli ermellini hanno decretato il falò per le ingombrantissime intercettazioni, l’inchiesta sulla trattativa però non si ferma: i pm della dda palermitana infatti hanno ascoltato Licio Gelli come persona informata sui fatti negli uffici della procura di Arezzo.
Sul patto scellerato tra pezzi dello Stato e la piovra c’è ancora aperto il fascicolo madre, dal quale a giugno sono state stralciate le posizioni dei dodici poi rinviati a giudizio. Nel fascicolo originario sulla trattativa c’è un importante pezzo dell’indagine Sistemi Criminali dove tra gli altri era indagato proprio il gran maestro della P2. Tra il 1991 e il 1992 infatti si verificano delle strane convergenze tra cosa nostra, la ‘ndrangheta, la Camorra, pezzi della massoneria deviata, elementi dei servizi e militanti della destra eversiva. E proprio in quei giorni, come ha raccontato Massimo Ciancimino, Gelli incontrava a Cortina Vito Ciancimino. Sul tavolo c’è la creazione di nuovi partiti politici che servono la causa delle organizzazioni criminali: è solo il 1992 ma massoneria e mafia sanno già che la prima Repubblica è finita.