La Consulta prende tempo sul conflitto sul legittimo impedimento dell’ex premier Silvio Berlusconi al processo Mediaset. E un caso apparentemente semplice, complice l’attuale situazione politica del Paese, rischia di trasformarsi in un’affilata spada di Damocle. Con una decisione inusuale, la Corte Costituzionale ha fissato a data da destinarsi la camera di consiglio al termine della quale si stabilirà, di fatto, se il dibattimento che ha visto Berlusconi condannato in primo grado a quattro anni può continuare o debba ricominciare da capo. E se la Consulta finisse per dare ragione al leader del Pdl, l’intero caso sarebbe destinato a prescrizione certa e il Cavaliere avrebbe risolto metà dei suoi problemi giudiziari.
Al centro della vicenda un’udienza di primo grado lontanissima nel tempo che risale al primo marzo del 2010. Quel giorno il Tribunale decise di proseguire il dibattimento sebbene l’imputato fosse impegnato in una riunione del Consiglio dei ministri. E aveva motivato la decisione ricordando come la stessa era stata convocata, all’ultimo momento, dopo che era già stata fissata la data dell’udienza. “Nulla è stato dedotto” riguardo la necessità e inderogabilità della riunione del Consiglio dei ministri, avevano all’epoca spiegato i magistrati ricordando che l’udienza in questione faceva parte di un calendario fissato da tempo tra le parti secondo i principi di una “leale collaborazione tra i poteri dello Stato” fissati proprio dalla Consulta. E che pertanto la riunione di governo non poteva essere considerata come “legittimo impedimento“.
Non così l’entourage dell’allora premier che parlava di un atto di guerra, di una decisione “fuori sistema” che avrebbe comportato “l’annullamento del processo“. L’avvocatura dello Stato nel ricorso presentato alla Corte aveva quindi stigmatizzato “un inammissibile potere di sindacato delle ragioni politiche” che avevano provocato il rinvio della riunione a Palazzo Chigi da venerdì 24 febbraio al lunedì successivo. Ragioni politiche che, spiegavano gli avvocati dello Stato, era racchiusa nella “complessa elaborazione” del ddl sull’anti-corruzione. Una complessità effettivamente insindacabile, visto che la norma è stata approvata solo tre anni dopo sotto il governo di Mario Monti.
Giudice relatore in Cassazione, Sabino Cassese, la cui stretta vicinanza al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non è un mistero. Come non lo è il suo ruolo di mentore negli studi giuridici e nella professione nei confronti del precoce figlio dell’inquilino del Quirinale, Giulio, giovanissimo docente universitario di diritto. Se la Consulta darà ragione al Cavaliere, i giudici di Appello dovranno, probabilmente, annullare la sentenza di primo grado. Risultato: niente carcere e niente rischi di interdizione dai pubblici uffici. E agibilità politica.