“Mi sento defraudato di una vita lavorativa e di un sogno che mi hanno spezzato”. Non riesce a trattenere la commozione Antonio Rinaldi, il macchinista delle ferrovie che esattamente 4 anni fa rimase coinvolto nel crollo del ponte sul fiume Po, che unisce Piacenza alla sponda lombarda. Una tragedia sfiorata e una paura per molti. Soprattutto per lui, che la disperazione se la porta ancora dietro giorno dopo giorno. E mentre attende che la giustizia faccia il suo corso, Antonio ha ricevuto finora come indennizzo solo 17mila euro, “che non mi sono bastate neppure per le prime operazioni”, mentre gli sono stati negati 90mila euro – o meglio “congelati” – visto che la causa legale con Anas non si è ancora conclusa.
Quel 30 aprile del 2009, il 53enne Rinaldi si stava recando al lavoro quando, arrivato quasi a metà del centenario viadotto, vide davanti a sé una voragine. Poi il vuoto e un volo di oltre venti metri sulla sponda piacentina del fiume. Nell’impatto rimase gravemente ferito, riportando una lesione permanente alla schiena che lo ha reso parzialmente invalido. Da quel crollo è cominciato il suo calvario: “I medici della terapia del dolore mi dicono che non possono fare altro per fermare le fitte che sento. E da poco ho fatto una tac e mi hanno trovato una macchia in testa. Oltre alle pastiglie per la schiena, adesso ne devo prendere altre quattro, sperando non sia niente di grave”. E il crollo del ponte se lo ricorda bene. “Rivivo sempre quel momento. Sia dal punto di vista psicologico, perché ce l’ho ancora davanti agli occhi. Sia perché mi ha rovinato la vita – spiega Rinaldi -. Per avere sollievo alla spina dorsale, giro ancora con un busto”.
Ma lo vive tutti i giorni anche perché il processo per quel disastro, portato avanti dalla procura di Lodi, non è ancora arrivato a conclusione, anzi. “Non si è chiusa la parte economica con l’Anas. Sono molto arrabbiato, perché si cerca di perdere tempo. Da 16 dirigenti indagati ne sono rimasti solo 5. E anche adesso il processo viene continuamente rinviato”.
E’ già la seconda udienza, infatti, che viene posticipata a causa di cavilli burocratici. “Uno di loro, l’8 febbraio, prima non aveva ritirato la comunicazione per presentarsi. Poi di nuovo, il 5 di aprile, sempre lei non aveva ritirato la raccomandata. Ora il 14 giugno gli presenteranno la comunicazione forzosa tramite i carabinieri. Ma così non si può andare avanti” ha detto sconsolato, aggiungendo: “E’ un gioco sporco che stanno facendo”.
Le accuse per i dirigenti Anas sono di concorso in crollo e disastro colposo per la mancata manutenzione della struttura. La difesa sostiene invece che il cedimento sia da imputare alla straordinaria piena del fiume che provocò lo spostamento di una pila. Al procedimento è stato ammesso come parte civile Rinaldi, il Comune di Piacenza, quello di San Rocco al Porto e una società che fu costretta a chiudere un negozio a causa dell’improvviso calo degli affari.
Nel frattempo, l’ex macchinista di Trenitalia ha dovuto rinunciare al suo sogno: “Sono entrato nelle ferrovie nel 1982 e avevo raggiunto da poco una stabilità. Ma poi, con i dolori alla schiena non ho più potuto farlo. Ora sono stato trasferito in ufficio, però ho avuto un ridimensionamento dello stipendio”. Così, con poco più di mille euro al mese, si sente “un fallito, quando guardo i miei figli e non posso assicurargli un futuro. Mia figlia di 21 anni studia, però non so per quanto potrò ancora garantirgli di farlo, senza che si debba trovare un impiego per mantenersi. Il più piccolo, che compie 18 anni ad agosto, non potrà neppure avere una festa come se la immaginava”. In più la sfortuna sembra essersi accanita sulla sua famiglia: “Quando mi sono ripreso, mia moglie (52 anni, ndr) ha avuto tre infarti, con un intervento a cuore aperto ed è rimasta invalida”.
Per questo Antonio Rinaldi, a 4 anni di distanza da quel disastro che sconvolse due delle regioni più ricche d’Italia ma che si risolse in un anno grazie allo sforzo congiunto delle amministrazioni e dei privati, si sente di dire chiaramente che le istituzioni non lo hanno sostenuto: “In questo tempo, l’unica cosa che ho ottenuto è di parlare con i Servizi sociali. Vedremo. Poi ho chiesto un prestito a due banche, ma niente. Hanno detto che non il minimo indispensabile come garanzia”. Impossibile non avere nella mente brutti pensieri. Gli stessi che hanno mosso la mano di Luigi Preiti, l’uomo che domenica ha sparato contro i due carabinieri davanti palazzo Chigi? “Sì, mi vengono pensieri estremi. Per ora li tengo a bada, grazie alla solidarietà di tante persone che mi conoscono. Cerco di vedere il lato positivo della vita che mi è rimasta. Però vorrei giustizia, per questo mi sento defraudato. Di una vita e di un sogno. E a pagare è tutta la mia famiglia”.