Il rischio che il turismo torni ad essere la cenerentola dei temi oggetto dell’agenda governativa ed in particolare un mero corollario della cultura, è concreto. Potrebbe essere infatti questa la diretta conseguenza della scelta compiuta, attraverso la nomina di Massimo Bray a Ministro della Cultura di assorbire la delega sul turismo in seno al calderone delle politiche culturali.
Si tratta di una scelta sbagliata, che riporta le lancette delle politiche di promozione e commercializzazione turistica dell’Italia indietro di diversi anni. A quando si riteneva che l’Italia fosse l’ombelico del mondo per milioni di turisti. E dunque si credeva erroneamente che per farne arrivare tanti bastasse semplicemente valorizzare in chiave di attrattività turistica l’immenso patrimonio storico-culturale di cui il Paese dispone.
Non comprendendo quello che campioni di incoming turistico come i cugini francesi – 79,5 milioni di arrivi contro i nostri 46,1 – hanno capito diversi anni fa. Ossia che il turismo è una vera e propria industria, con peculiarità, problemi specifici e con una dimensione economica precisa.
In Italia il turismo genera poco meno del 10 per cento del Pil e dà lavoro a circa 2,2 milioni di addetti. E proprio perché dovrebbe essere trattato alla stessa stregua di un qualsiasi comparto “industriale”, il turismo abbisogna di politiche industriali mirate. Quelle che mancano da troppi anni e che solo nell’agenda del governo Monti erano state abbozzate, attraverso la definizione di un articolato piano strategico di rilancio del turismo.
Come suggerisce il curriculum del neo ministro alla Cultura, per potersi occupare di turismo, non basta quindi essere profondo conoscitore della storia del nostro Paese, né aver maturato una esperienza in progettazione di importanti eventi. Quello che pare essere sfuggito anche a Letta è il fatto che per maneggiare una materia delicata e complessa come è il turismo, non si può prescindere da un approccio che prenda le mosse da una visione prettamente economica dell’industria turistica. Se l’obiettivo è anche tentate di far risalire l’Italia nella classifica mondiale delle mete turistiche.
Perché sul nostro arretramento a vantaggio dei competitors, pesa non solo una governance disastrosa del settore, frutto della scellerata riforma del Titolo V ed in cui, in assenza di un coordinamento centrale presente in altri Paesi, si fanno i conti con una frammentazione delle politiche di sviluppo e commercializzazione sui mercati mondiali.
L’industria turistica è infatti ancora troppo imperniata su imprese familiari e di piccole dimensioni, sono ancora eccessivamente presenti rendite di posizione, i prodotti turistici – a parte in rari casi, come ad esempio l’Alto Adige e Emilia Romagna l’Emilia Romagna (link) – sono involuti, le risorse umane sono poco formate, le nuove tecnologie non sono ancora diffuse come dovrebbero e la fiscalità è di sfavore rispetto a quella di altri Paesi. Senza considerare che l’Enit, considerato per troppi anni una delle tante vacche da mungere ed ora in via di profonda ristrutturazione, dispone di risorse insufficienti per assolvere allo strategico ruolo di coordinare gli interventi di promo-commercializzazione turistica sui principali mercati internazionali.
E poi vi è un problema, che avrebbe dovuto affrontare Italia Turismo– partecipata della centrale di sprechi Invitalia (ex Sviluppo Italia) – e che risiede nell’incapacità di attrarre investimenti esteri. Necessari, questi, per introdurre nel comparto non solo capitali, ma esperienze e progettualità utili a far crescere la capacità catalizzatrice dell’Italia.
In tutto ciò l’auspicio è che quanto di buono è stato impostato con il piano sul turismo dal predecessore di Bray non vada perso. Perché, secondo attendibili e prudenziali stime, l’adozione integrale del piano porterebbe entro il 2020 a risultati non indifferenti: 500.000 nuovi posti di lavoro e l’incremento di 30 miliardi del contributo al Pil del settore turistico (da 134 a 164 miliardi), proveniente in special modo dal turismo internazionale. Ciò, sempre che naturalmente all’Italia e dunque al governo Letta interessi fare del turismo un volano per la crescita del Paese e creare i presupposti per poter cogliere al meglio le opportunità che derivano dalle prospettive di ulteriore aumento del mercato mondiale del turismo.
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