La prima finale tutta tedesca nella storia della Champions League è un nodo che viene al pettine. Lo schiaffo teutonico in faccia alle ambizioni di Real Madrid e Barcellona ne è la conseguenza. E chi oggi parla di cicli finiti (quello dei catalani) o mai iniziati (quello di Mourinho alla Casa Blanca) analizza il contorno – dolce di sale – delle due semifinali. Il piatto principale è molto più gustoso. Qui la statistica conta relativamente. E’ vero: l’exploit made in Deutschland è un unicum a livello continentale (al contrario ci sono state finali tutte italiane, spagnole e inglesi), ma sarebbe miope considerarlo un caso. La realtà è un’altra. E viene da lontano. Perché per costruire edifici perfetti ci vuole tempo. La Germania del calcio ha impiegato 13 anni per raggiungere il suo apice.
La svolta tedesca nel Duemila: 500 milioni nei settori giovanili
Lo spartiacque del successo è il Duemila. Certo, il Bayern Monaco faceva già parte del gotha pallonaro europeo e il Borussia Dortmund nel 1997 aveva vinto la sua unica Coppa dei Campioni (3 a 1 a Monaco di Baviera contro la Juve di Marcello Lippi). Eppure il calcio dei panzer inteso come modello era a un punto di non ritorno: pochi talenti, successi minimi rispetto al passato e agli investimenti. Con le dovute proporzioni, un po’ ciò che accade di questi tempi in Italia. Ma come in politica e in economia, anche nel calcio i tedeschi hanno saputo riorganizzare e programmare. Hanno rinunciato all’uovo di oggi per puntare sulla gallina di domani. Beh, ora quella gallina sta dando uova d’oro.
La svolta si chiama Progetto 2000, l’autore è la Federazione. Che diede i numeri, letteralmente: sovvenzionò o creò di sana pianta 366 centri di formazione per giovani calciatori con la bellezza di 500 milioni di euro (oggi 10 milioni a quadrimestre, 30 all’anno, secondo i dati della Gazzetta dello Sport). Le società incassavano i contributi e ed erano costretti a investirli secondo parametri fissati da chi sborsava, pena la chiusura del rubinetto federale e l’auto-espulsione automatica dal circolo virtuoso. Nacquero strutture all’avanguardia (lo sono tutt’ora): generazioni di calciatori seguiti dai primi calci fino al professionismo, con la garanzia di rendimento scolastico di livello e benessere fisico.
Non solo giovani: il segreto del turbo-merchandising
Risultati? Muller, Reus, Gotze, Marin, Ozil, Kedira, Boateng e una lista sterminata di ottimi calciatori che, rivenduti da giovanissimi, hanno fruttato ai club di appartenenza o plusvalenze milionarie o rendite di talento con cui andare all’incasso di titoli in Europa. Tutto qui (si fa per dire)? No. Perché le società già ricche (vedi Bayern) hanno continuato a spendere per acquistare campioni stranieri da inserire nell’orticello di speranze fatte in casa. Tutte, invece, hanno compreso in anticipo che lo spettacolo dei campioncini sui campi doveva essere il più condiviso possibile. Come fare? Giù il costo dei biglietti per le partite (che si giocano per il 95% lo stesso giorno). Anche in questo caso il successo è nei numeri: Bundesliga prima per distacco nella classifica europea delle presenze sugli spalti, con oltre 44mila spettatori di media a gara.
E siccome il calcio a questi livelli resta sempre e comunque un business, i club hanno dato il via a un merchandising assai spinto, che comprende non solo le sciarpe e le maglie della squadra del cuore, ma anche birra, acqua, panini e caffè allo stadio. Ecco: immaginate ora quanto può guadagnare il Borussia Dortmund con 80mila tifosi fissi all’ex Westfalen stadion (e con 6 Borussia point disseminati per la città). A tutto questo basta aggiungere un settore pubblicitario molto vivace e il gioco è fatto. E che gioco. C’è da scommetterci: quella tedesca è una luce che illuminerà il calcio europeo ancora per molti anni.
Dal cappotto teutonico all’Operacion Puerto: le ombre spagnole
Chi invece si trova a gestire le ombre dopo tanti anni di lustri e payettes è la Spagna. Attenzione: ombre non solo in termini di risultati sul campo. Sarà un caso, ma il tracollo per mano teutonica è stato suggellato all’indomani di una sentenza di tribunale che a tutto serve, tranne che a far luce sulle malignità che sporcano i successi recenti del sistema spagnolo. A gridar vendetta per l’esito-farsa dell’inchiesta sulla Operacio Puerto dovrebbero essere proprio le dirigenze di Barcellona e Real Madrid: il riferimento non è alle ridicole condanne dei più o meno presunti stregoni del doping, quanto alle mancate autorizzazioni della giustizia iberica per nuove indagini sulle oltre 200 sacche di sangue ‘sporco’ conservato con sin troppa perizia dal dottor Eufemiano Fuentes.
Quest’ultimo lo ha detto a più riprese: da lui non si servivano solo ciclisti (almeno 58), ma anche molti altri sportivi nazionali di primissimo livello. Il calcio è stato coinvolto di striscio (la Real Sociedad ne esce male, peraltro a causa delle confessioni dell’ex presidente e non a seguito di attività investigativa), ma tra gli addetti ai lavori il sospetto è che dietro il silenzio si celi lo scandalo. La Wada ha fatto ricorso, il mondo dello sport è in subbuglio.
La guerra (sfortunata) di Tito, l’errore di Mouringhio
In cotanto polverone, non sono uno scandalo le eliminazioni di Real Madrid e Barcellona dalla Champions. Un’onta sì, uno scandalo no. Perché hanno vinto le squadre più forti e organizzate. Ma guai a parlare troppo presto di cicli finiti. Di soldi i Blancos e i Blaugrana ne hanno ancora tantissimi (grazie anche a un regime fiscale assai tenero): sin da ora promettono di monopolizzare la prossima campagna trasferimenti a suon di milioni (a Madrid sarà semi-rivoluzione; a Barcellona già prenotati fini giocolieri del calibro di Neymar e Aguero). Ma per vincere serve metodo e fortuna. Mourinho non ha avuto metodo, Villanova non ha avuto fortuna.
Il successore di Guardiola è incappato in una stagione storta. La sua lotta contro il cancro, gli infortuni di uomini chiave nei momenti topici, un impianto di gioco sin troppo dipendente dallo stato di forma dei soliti noti e l’appagamento di una rosa pluridecorata: questi gli ingredienti di una disfatta comunque parziale, visto che il Barca ha vinto la Liga con distacco siderale sul Real (unico, vero avversario in un torneo oramai noioso). Non sarebbe una sorpresa, quindi, se nel 2014 i catalani ritornassero a macinare vittorie e spettacolo. Lo Special One, al contrario, ha compiuto un errore gravissimo: ha creduto di poter anteporre il suo carattere al prestigio del club più importante al mondo. Poco gioco, pessimi rapporti con la stampa, liti personali con i senatori: e siccome al Santiago Bernabeu badano molto alla forma applicata alla sostanza, ecco che con ‘zeru tituli’ veri (la Coppa del Re ha meno sapore della Coppa del Nonno) l’avventura di ‘Mouringhio’ in Spagna certamente si chiuderà con poche pacche sulle spalle, molti rimpianti e altrettanti veleni. “Andrò dove mi amano davvero” ha detto il tecnico di Setubal dopo l’eliminazione. Attenzione: anche al Chelsea, nonostante gli euro-gas di Abramovich, i wurstel teutonici promettono digestioni difficoltose.