Chi ha voluto delegittimare i magistrati di Palermo, guidati dal procuratore Gian Carlo Caselli, e osannare Giulio Andreotti, ha sempre detto che il sette volte presidente del Consiglio è stato assolto dall’accusa di associazione mafiosa. Il suo sarebbe stato un processo politico e persecutorio. Ma non è così. Giudici d’appello e di Cassazione hanno decretato che Andreotti ebbe rapporti organici con Cosa nostra almeno fino al 1980. Quello ad Andreotti è stato sicuramente il processo più dirompente della storia recente italiana, seguito, in primo grado, a livello internazionale.
La sentenza di primo grado è del 23 ottobre 1999 ed è di assoluzione con il comma 2 dell’articolo 530 cpp, la vecchia insufficienza di prove. In appello, il 2 maggio 2003, i giudici in parte prescrivono e in parte assolvano l’ex premier. Proclamano la prescrizione per il reato di associazione a delinquere (in quegli anni non c’era ancora il reato di associazione mafiosa, 416 bis) “commesso fino alla primavera del 1980”. Per le accuse successive alla primavera del 1980, la Corte d’appello assolve sempre con la vecchia insufficienza di prove. La Cassazione conferma l’appello il 15 ottobre del 2004.
Dunque Andreotti, almeno fino al 1980 ha avuto rapporti con Cosa nostra. Secondo la Corte d’appello Andreotti, “con la sua condotta (non meramente fittizia) ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi”. La Corte ritenne che sia stato “ravvisabile il reato di partecipazione alla associazione per delinquere nella condotta di un eminentissimo personaggio politico nazionale, di spiccatissima influenza nella politica generale del Paese ed estraneo all’ambiente siciliano, il quale, nell’arco di un congruo lasso di tempo, anche al di fuori di una esplicitata negoziazione di appoggi elettorali in cambio di propri interventi in favore di una organizzazione mafiosa di rilevantissimo radicamento territoriale nell’Isola: a) chieda ed ottenga, per conto di suoi sodali, ad esponenti di spicco della associazione, interventi para-legali, ancorché per finalità non riprovevoli; b) incontri ripetutamente con esponenti di vertice della stessa associazione; c) intrattenga con gli stessi relazioni amichevoli, rafforzandone la influenza anche rispetto ad altre componenti dello stesso sodalizio tagliate fuori da tali rapporti; d) appalesi autentico interessamento in relazione a vicende particolarmente delicate per la vita del sodalizio mafioso; e) indichi ai mafiosi, in relazione a tali vicende, le strade da seguire e discuta con i medesimi anche di fatti criminali gravissimi da loro perpetrati in connessione con le medesime vicende, senza destare in essi la preoccupazione di venire denunciati; f) ometta di denunciare elementi utili a far luce su fatti di particolarissima gravità, di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza di diretti contatti con i mafiosi; g) dia, in buona sostanza, a detti esponenti mafiosi segni autentici e non meramente fittizi di amichevole disponibilità, idonei, anche al di fuori della messa in atto di specifici ed effettivi interventi agevolativi, a contribuire al rafforzamento della organizzazione criminale, inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale”.
Le “vicende particolarmente delicate per la vita” di Cosa nostra e i “fatti di particolarissima gravità” riguardano Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, della Democrazia Cristiana, in lotta per una pulizia all’interno del suo partito e nell’amministrazione pubblica. Un ostacolo per la mafia che decise di eliminarlo proprio il giorno di Epifania del 1980.
La trattativa con la mafia e l’omicidio Mattarella
Mattarella viene ucciso il 6 gennaio 1980 davanti agli occhi della moglie. Andreotti, si legge nella sentenza, “era certamente e nettamente contrario” all’omicidio tanto da incontrare in Sicilia l’allora capo dei capi di Cosa nostra, Stefano Bontate, per una trattativa con l’organizzazione criminale che evitasse l’uccisione di Mattarella. Dunque Andreotti, non si rivolge all’autorità giudiziaria per salvare la vita a Mattarella, ma cerca un compromesso con i mafiosi: Andreotti, “nell’occasione, non si è mosso secondo logiche istituzionali, che potevano suggerirgli di respingere la minaccia alla incolumità del presidente della Regione facendo in modo che intervenissero per tutelarlo gli organi a ciò preposti e, per altro verso, allontanandosi definitivamente dai mafiosi, anche denunciando a chi di dovere le loro identità ed i loro disegni”. Scrivono ancora i giudici: “Ha sì agito per assumere il controllo della situazione critica e preservare la incolumità dell’on. Mattarella, che non era certo un suo sodale, ma lo ha fatto dialogando con i mafiosi e palesando, pertanto, la volontà di conservare le amichevoli, pregresse e fruttuose relazioni con costoro, che, in quel contesto, non possono interpretarsi come meramente fittizie e strumentali”.
Dopo l’omicidio del presidente siciliano “Andreotti non si è limitato a prendere atto, sgomento, che le sue autorevoli indicazioni erano state inaspettatamente disattese dai mafiosi ed a allontanarsi senz’altro dagli stessi, ma è sceso in Sicilia per chiedere conto al Bontate della scelta di sopprimere il presidente della Regione. Anche tale atteggiamento deve considerarsi incompatibile con una pregressa disponibilità soltanto strumentale e fittizia e non può che leggersi come espressione dell’intento di verificare, sia pure attraverso un duro chiarimento, la possibilità di recuperare il controllo sulla azione dei mafiosi riportandola entro i tradizionali canali di rispetto per la istituzione pubblica e di salvaguardare le buone relazioni con gli stessi, nel quadro della aspirazione alla continuità delle stesse”.
“L’aiutino” a Sindona
Stretti i rapporti di Andreotti con Michele Sindona, condannato come mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della banca del finanziere legato alla mafia. Secondo la sentenza di primo grado “è stato provato” che il senatore Andreotti “adottò reiteratamente iniziative idonee ad agevolare la realizzazione degli interessi del Sindona nel periodo successivo al 1973”, così come fecero “taluni altri esponenti politici, ambienti mafiosi e rappresentanti della loggia massonica P2”. Andreotti fu “attivo” nel cercare di aiutare Sindona, ci fu da parte sua “un continuativo interessamento, proprio in un periodo in cui egli ricopriva importantissime cariche governative”. Se “gli interessi di Sindona non prevalsero” fu merito di Ambrosoli, che, infatti, fu ucciso per la sua condotta integerrima. Andreotti “anche nel periodo in cui rivestiva le cariche di ministro e di presidente del Consiglio si adoperò in favore di Sindona, però non c’è “prova sufficiente che l’imputato abbia agito con la coscienza e volontà di apportare un contributo casualmente rilevante per la conservazione o il rafforzamento dell’organizzazione mafiosa”.
I rapporti con gli esattori Ignazio e Nino Salvo, legati alla mafia
Scrive il tribunale di Palermo: “L’asserzione dell’imputato di non aver intrattenuto alcun rapporto con i cugini Salvo è risultata inequivocabilmente contraddetta dalle risultanze probatorie”. Nella sentenza di assoluzione con la vecchia insufficienze di prove si ricordano un paio di testimonianze di un faccia a faccia tra Andreotti e Nino Salvo, approfittando di un incontro pubblico nel 1979 e l’ormai famoso vassoio d’argento, regalo di nozze di Andreotti alla figlia, Angela Salvo.
Come per Sindona, anche per i rapporti con i Salvo, i giudici concludono, però, la manca di prova certa che Andreotti abbia “manifestato ai cugini Salvo una permanente disponibilità ad attivarsi per il conseguimento degli obiettivi propri dell’associazione mafiosa”. E quindi perché Andreotti ha negato qualsiasi rapporto con i Salvo? Per “evitare ogni appannamento della propria immagine di uomo politico”, cercava di “impedire che nell’opinione pubblica si formasse la certezza dell’esistenza dei suoi rapporti personali con soggetti quali i cugini Salvo, organicamente inseriti in Cosa nostra”.
I rapporti con i “proconsoli” in Sicilia, Salvo Lima e Vito Ciancimino
Salvo Lima, ucciso nel marzo del 1992 a Palermo, così come prima di lui Vito Ciancimino, erano i massimi rappresentati del potere andreottiano in Sicilia. La sentenza di Cassazione, ritiene provato che “il senatore Andreotti ha avuto piena consapevolezza che i suoi referenti siciliani (Lima, i Salvo, Ciancimino) intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; che egli aveva quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; che aveva palesato ai medesimi una disponibilità non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; che aveva loro chiesto favori; che li aveva incontrati; che aveva interagito con essi che aveva omesso di denunciare le loro responsabilità”.
L’incontro con un boss trapanese
Il 19 agosto 1985, in un hotel di Mazara del Vallo, il ministro degli Esteri Andreotti incontra il boss Andrea Manciaracina, sorvegliato speciale e uomo di fiducia di Totò Riina. Un colloquio testimoniato dal sovraintendente capo della polizia Francesco Stramandino, che si trovava lì per la sicurezza di Andreotti: “Ricordo che rimasi un po’ sorpreso di ciò, poiché pensai che l’on. Andreotti trattava cortesemente una persona del tipo di Manciaracina, e magari poi a noi della polizia neanche ci guardava”, disse il poliziotti ai pm di Palermo. Andreotti, al contrario dei rapporti con i Salvo, in questo caso conferma l’incontro con Manciaracina e parla di un colloquio per problemi di “pesca”. Una versione “inverosimile” per i giudici di primo grado, anche se “manca qualsiasi elemento che consenta di ricostruire il contenuto del colloquio”.