Successe tutto in una volta, nell’arco di pochissimo tempo. Era il 1993 quando fecero il suo nome. Giulio Andreotti, in tanti anni di carriera politica, era stato toccato da numerosi scandali, ma mai venne concessa dalle Camere l’autorizzazione a procedere per nessuna delle 27 volte in cui fu richiesta. Eppure il boss dei due mondi, Tommaso Buscetta, riuscì laddove in tanti decenni tutti fallirono. Riuscì al punto che il 27 ottobre 1993 la procura di Palermo chiese e ottenne l’ok da Roma per indagare il Divo per associazione a delinquere di stampo mafioso, quel reato introdotto nel 1982 con l’articolo articolo 416 bis del codice penale.
I processi per mafia: prescritto per il pre-1980 e assolto per il poi con formula dubitativa. La vicenda giudiziaria che vide accusato il 7 volte presidente del consiglio del ministri per mafia si concluse solo il 15 ottobre 2004. E in molti non ricordano – o fingono di non ricordare – che Andreotti se la cavò per due motivi. Il primo: per tutti i fatti precedenti al 1980 fu riconosciuto colpevole, ma i reati erano caduti in prescrizione. Per ciò che invece accadde dopo quell’anno, l’imputato venne assolto, dicono i giuristi, in forza dell’“articolo 530 del codice di procedura penale, secondo comma”. In sostanza la formula che un tempo si chiamava insufficienza di prove.
In sede processuale, comunque, venne stabilito che Andreotti in Sicilia aveva referenti organici a cosa nostra. A iniziare da quel Salvo Lima che nel 1974 si portò a Roma come sottosegretario al bilancio provocando le dimissioni di un consulente tecnico che era un galantuomo, Paolo Sylos Labini. L’asse con personaggi in odor di mafia era iniziata nel 1968. In quell’anno Andreotti si era reso conto che la sua roccaforte elettorale, in Lazio, non sarebbe stata sufficiente e aveva capito un altro fatto: consolidare la sua corrente, che si chiamava “Primavera”, tanto che dopo il patto siciliano passò dal 2 al 10 per cento dei consensi all’interno della Democrazia Cristiana.
Il balzo, oltre a Lima, comprese anche altri personaggi. Due erano parenti, cugini per la precisione, Nino e Ignazio Salvo. Nell’isola erano conosciuti come gli “esattori” e anche come i “signori 10 per cento” per via della percentuale che si diceva arrivasse loro nella gestione degli appalti. E poi c’era l’uomo del “sacco di Palermo”, Vito Ciancimino, già assessore ai lavori pubblici e poi sindaco, che insieme a Lima aveva gestito il boom edilizio – nella realtà fu una devastazione di cemento e asfalto – concedendo oltre 4 mila licenze andate per la maggior parte a quattro signor nessuno, dei prestanome.
Il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che lavorò in Sicilia prima di passare alla lotta al terrorismo, aveva ben chiara questa situazione. Tanto che nel 1982, nominato prefetto di Palermo con poteri speciali mai concretizzatisi per mancanza di risorse e uomini e finendo ammazzato il il 3 settembre di quell’anno insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo, scrisse: “L’onorevole Andreotti mi ha chiesto di andare […]. Sono stato molto chiaro e gli ho dato certezza che non avrò riguardi per quell’elettorato a cui attingono i suoi grandi elettori”.
Un entourage come quello di Lima, dei cugini Salvo e di Ciancimino (che fu il primo nella seconda metà degli anni Settanta a lasciare la corrente andreottiana) significava due fatti, confermati anche dall’istruttoria e dalle sentenze di maxi processo di Palermo: essere in collegamento con l’ala “moderata” di cosa nostra rappresentata da Stefano Bontate, ma anche con i corleonesi, che surclassarono la prima. Tanto moderata però quella corrente della mafia non era e quando in Sicilia ci fu una linea all’interno della Dc che voleva un rinnovamento allontanando chi era coinvolto con la criminalità, si passò alle minacce e poi all’omicidio.
Accadde con Piersanti Mattarella, una delle punte di questa linea. Nell’estate del 1979, nel corso di un incontro in Sicilia, venne detto al Divo di ricondurre a più miti consigli il presidente della Regione. Ma dato che non venne placata la sua propensione contro il malaffare, Mattarella fu assassinato il 6 gennaio 1980. Nel corso dei processi si stabilirà che Andreotti – informato dell’organizzazione del delitto e rimasto zitto con tutti, compreso il diretto interessato – la primavera successiva torno sull’isola per avere spiegazioni da Bontate, ma venne preso a male parole e da lì, dicono le sentenze, sarebbe iniziata una progressiva presa di distanza da cosa nostra. E la rottura del patto politica-mafia, così com’era stato fino agli anni Ottanta, fu sancito con l’omicidio di Salvo Lima, avvenuto a Mondello il 12 marzo 1992, e di Ignazio Salvo, assassinato il 17 settembre successivo.
Il delitto Pecorelli: dall’affaire Moro a costante attacco del giornalista contro Andreotti. I rapporti con cosa nostra, che passarono anche attraverso i tentativi di salvataggio di Michele Sindona, riciclatore di denaro sporco sulle grandi piazze internazionali, vennero affrontati anche nell’altra grande vicenda giudiziaria che riguardò Giulio Andreotti: l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, avvenuto a Roma il 20 marzo 1979. Per anni le indagini per la morte del direttore di Op languirono tra stranezze, testimoni non sentiti e documenti che si volatizzavano. E quell’evento venne tenuto vivo solo dalla commissione parlamentare e dall’istruttoria sulla loggia P2 di Licio Gelli.
Fino a quando, di nuovo, Buscetta parlò dicendo ai magistrati di Palermo di aver saputo tra il 1980 e il 1982 da Bontate e da Gaetano Badalamenti che Andreotti sarebbe stato il mandante di quel delitto. Incriminato a Roma il 14 aprile 1993, per lui venne chiesta l’autorizzazione a procedere il successivo 9 giugno e il politico fu rinviato a giudizio per il reato di omicidio volontario aggravato. In sostanza si sosteneva che i cugini Salvo avrebbero chiesto a Bontate e Badalamenti aiuto nell’organizzazione il delitto del giornalista che dava fastidio al Divo con i suoi articoli. I due boss a quel punto, sempre secondo l’accusa, avrebbero inviato un loro uomo, Michelangelo La Barbera, che avrebbe agito con Massimo Carminati coinvolgendo nella preparazione a Roma esponenti della banda della Magliana.
In questo caso la vicenda giudiziaria procedette a fase alterne. Se l’inchiesta nacque a Roma, in seguito le carte passarono a Perugia perché, nel frattempo, l’accusa si era estesa anche a un ex magistrato della capitale, il Dc Claudio Vitalone. Andreotti, in primo grado, fu assolto mentre in secondo fu condannato a 24 anni di reclusione. Ma il 30 ottobre 2003 la Cassazione annullò la sentenza d’appello e senza rinvio rese definitiva quella assolutoria per tutti gli imputati. Secondo quando sostenne la suprema corte, le accuse contro Andreotti erano “congetture prive di supporto probatorio” e al massimo si poteva parlare di “consenso presunto” che non costituiva responsabilità penale.
Però nel corso dei vari gradi del processo molto si giocò sull’“interesse” che Andreotti ne avrebbe tratto dall’eliminazione del giornalista. Un interesse che aveva a che fare con una serie di inchieste che Pecorelli svolse sfruttando agganci che andavano dalla politica ai servizi segreti fino alle forze armate. In base a quanto scrisse, Pecorelli raccontò molti scandali che chiamavano in causa il Divo. Italcasse, petroli, Mi.Fo.Biali, finanziamento illecito ai partiti, gli assegni Sir, vicende sindoniane, trame oltre Tevere erano solo alcune delle storie su cui Pecorelli riferiva con impressionante precisione rispetto a risultanze investigative anche successive alla sua morte.
Ma sopra ogni altra vicenda ci fu il delitto Moro, ritenuto il movente più probabile per un delitto a oggi impunito. Nel ricostruire quella storia, Pecorelli aveva dato dettagli molto circostanziati su dinamica, covi, trattative e soprattutto sui memoriali, dimostrando di conoscerli molto meglio rispetto a quanto era stato divulgato ai tempi. In particolare dimostrava di conoscere passaggi di cui si seppe solo dopo il ritrovamento a Milano, in via Monte nevoso, il 9 ottobre 1990. Qui si parlava di Gladio – proprio alla vigilia della relazione che Andreotti doveva presentare in parlamento sulla Stay Behind italiana, come fece tra il 20 e il 23 ottobre 1990 – e il presidente della Dc, dalla prigione del popolo brigatista, scrisse parole al vetriolo formulando condanne per essere stato lasciato morire in nome di una presunta ragione di Stato.
Giustizia & Impunità
Andreotti morto: da Cosa nostra a Pecorelli, dietro le sentenze restano i fatti
Dopo ben 27 richieste di autorizzazione a procedere respinte dalle Camere, negli anni Novanta il "Divo Giulio" fu imputato in due processi clamorosi: quello sui rapporti con la mafia e quello per l'omicidio del giornalista di Op. Al di là degli esiti giudiziari, dalle carte emergono molti elementi sui rapporti pericolosi del più importante politico italiano del Dopoguerra
Successe tutto in una volta, nell’arco di pochissimo tempo. Era il 1993 quando fecero il suo nome. Giulio Andreotti, in tanti anni di carriera politica, era stato toccato da numerosi scandali, ma mai venne concessa dalle Camere l’autorizzazione a procedere per nessuna delle 27 volte in cui fu richiesta. Eppure il boss dei due mondi, Tommaso Buscetta, riuscì laddove in tanti decenni tutti fallirono. Riuscì al punto che il 27 ottobre 1993 la procura di Palermo chiese e ottenne l’ok da Roma per indagare il Divo per associazione a delinquere di stampo mafioso, quel reato introdotto nel 1982 con l’articolo articolo 416 bis del codice penale.
I processi per mafia: prescritto per il pre-1980 e assolto per il poi con formula dubitativa. La vicenda giudiziaria che vide accusato il 7 volte presidente del consiglio del ministri per mafia si concluse solo il 15 ottobre 2004. E in molti non ricordano – o fingono di non ricordare – che Andreotti se la cavò per due motivi. Il primo: per tutti i fatti precedenti al 1980 fu riconosciuto colpevole, ma i reati erano caduti in prescrizione. Per ciò che invece accadde dopo quell’anno, l’imputato venne assolto, dicono i giuristi, in forza dell’“articolo 530 del codice di procedura penale, secondo comma”. In sostanza la formula che un tempo si chiamava insufficienza di prove.
In sede processuale, comunque, venne stabilito che Andreotti in Sicilia aveva referenti organici a cosa nostra. A iniziare da quel Salvo Lima che nel 1974 si portò a Roma come sottosegretario al bilancio provocando le dimissioni di un consulente tecnico che era un galantuomo, Paolo Sylos Labini. L’asse con personaggi in odor di mafia era iniziata nel 1968. In quell’anno Andreotti si era reso conto che la sua roccaforte elettorale, in Lazio, non sarebbe stata sufficiente e aveva capito un altro fatto: consolidare la sua corrente, che si chiamava “Primavera”, tanto che dopo il patto siciliano passò dal 2 al 10 per cento dei consensi all’interno della Democrazia Cristiana.
Il balzo, oltre a Lima, comprese anche altri personaggi. Due erano parenti, cugini per la precisione, Nino e Ignazio Salvo. Nell’isola erano conosciuti come gli “esattori” e anche come i “signori 10 per cento” per via della percentuale che si diceva arrivasse loro nella gestione degli appalti. E poi c’era l’uomo del “sacco di Palermo”, Vito Ciancimino, già assessore ai lavori pubblici e poi sindaco, che insieme a Lima aveva gestito il boom edilizio – nella realtà fu una devastazione di cemento e asfalto – concedendo oltre 4 mila licenze andate per la maggior parte a quattro signor nessuno, dei prestanome.
Il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che lavorò in Sicilia prima di passare alla lotta al terrorismo, aveva ben chiara questa situazione. Tanto che nel 1982, nominato prefetto di Palermo con poteri speciali mai concretizzatisi per mancanza di risorse e uomini e finendo ammazzato il il 3 settembre di quell’anno insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo, scrisse: “L’onorevole Andreotti mi ha chiesto di andare […]. Sono stato molto chiaro e gli ho dato certezza che non avrò riguardi per quell’elettorato a cui attingono i suoi grandi elettori”.
Un entourage come quello di Lima, dei cugini Salvo e di Ciancimino (che fu il primo nella seconda metà degli anni Settanta a lasciare la corrente andreottiana) significava due fatti, confermati anche dall’istruttoria e dalle sentenze di maxi processo di Palermo: essere in collegamento con l’ala “moderata” di cosa nostra rappresentata da Stefano Bontate, ma anche con i corleonesi, che surclassarono la prima. Tanto moderata però quella corrente della mafia non era e quando in Sicilia ci fu una linea all’interno della Dc che voleva un rinnovamento allontanando chi era coinvolto con la criminalità, si passò alle minacce e poi all’omicidio.
Accadde con Piersanti Mattarella, una delle punte di questa linea. Nell’estate del 1979, nel corso di un incontro in Sicilia, venne detto al Divo di ricondurre a più miti consigli il presidente della Regione. Ma dato che non venne placata la sua propensione contro il malaffare, Mattarella fu assassinato il 6 gennaio 1980. Nel corso dei processi si stabilirà che Andreotti – informato dell’organizzazione del delitto e rimasto zitto con tutti, compreso il diretto interessato – la primavera successiva torno sull’isola per avere spiegazioni da Bontate, ma venne preso a male parole e da lì, dicono le sentenze, sarebbe iniziata una progressiva presa di distanza da cosa nostra. E la rottura del patto politica-mafia, così com’era stato fino agli anni Ottanta, fu sancito con l’omicidio di Salvo Lima, avvenuto a Mondello il 12 marzo 1992, e di Ignazio Salvo, assassinato il 17 settembre successivo.
Il delitto Pecorelli: dall’affaire Moro a costante attacco del giornalista contro Andreotti. I rapporti con cosa nostra, che passarono anche attraverso i tentativi di salvataggio di Michele Sindona, riciclatore di denaro sporco sulle grandi piazze internazionali, vennero affrontati anche nell’altra grande vicenda giudiziaria che riguardò Giulio Andreotti: l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, avvenuto a Roma il 20 marzo 1979. Per anni le indagini per la morte del direttore di Op languirono tra stranezze, testimoni non sentiti e documenti che si volatizzavano. E quell’evento venne tenuto vivo solo dalla commissione parlamentare e dall’istruttoria sulla loggia P2 di Licio Gelli.
Fino a quando, di nuovo, Buscetta parlò dicendo ai magistrati di Palermo di aver saputo tra il 1980 e il 1982 da Bontate e da Gaetano Badalamenti che Andreotti sarebbe stato il mandante di quel delitto. Incriminato a Roma il 14 aprile 1993, per lui venne chiesta l’autorizzazione a procedere il successivo 9 giugno e il politico fu rinviato a giudizio per il reato di omicidio volontario aggravato. In sostanza si sosteneva che i cugini Salvo avrebbero chiesto a Bontate e Badalamenti aiuto nell’organizzazione il delitto del giornalista che dava fastidio al Divo con i suoi articoli. I due boss a quel punto, sempre secondo l’accusa, avrebbero inviato un loro uomo, Michelangelo La Barbera, che avrebbe agito con Massimo Carminati coinvolgendo nella preparazione a Roma esponenti della banda della Magliana.
In questo caso la vicenda giudiziaria procedette a fase alterne. Se l’inchiesta nacque a Roma, in seguito le carte passarono a Perugia perché, nel frattempo, l’accusa si era estesa anche a un ex magistrato della capitale, il Dc Claudio Vitalone. Andreotti, in primo grado, fu assolto mentre in secondo fu condannato a 24 anni di reclusione. Ma il 30 ottobre 2003 la Cassazione annullò la sentenza d’appello e senza rinvio rese definitiva quella assolutoria per tutti gli imputati. Secondo quando sostenne la suprema corte, le accuse contro Andreotti erano “congetture prive di supporto probatorio” e al massimo si poteva parlare di “consenso presunto” che non costituiva responsabilità penale.
Però nel corso dei vari gradi del processo molto si giocò sull’“interesse” che Andreotti ne avrebbe tratto dall’eliminazione del giornalista. Un interesse che aveva a che fare con una serie di inchieste che Pecorelli svolse sfruttando agganci che andavano dalla politica ai servizi segreti fino alle forze armate. In base a quanto scrisse, Pecorelli raccontò molti scandali che chiamavano in causa il Divo. Italcasse, petroli, Mi.Fo.Biali, finanziamento illecito ai partiti, gli assegni Sir, vicende sindoniane, trame oltre Tevere erano solo alcune delle storie su cui Pecorelli riferiva con impressionante precisione rispetto a risultanze investigative anche successive alla sua morte.
Ma sopra ogni altra vicenda ci fu il delitto Moro, ritenuto il movente più probabile per un delitto a oggi impunito. Nel ricostruire quella storia, Pecorelli aveva dato dettagli molto circostanziati su dinamica, covi, trattative e soprattutto sui memoriali, dimostrando di conoscerli molto meglio rispetto a quanto era stato divulgato ai tempi. In particolare dimostrava di conoscere passaggi di cui si seppe solo dopo il ritrovamento a Milano, in via Monte nevoso, il 9 ottobre 1990. Qui si parlava di Gladio – proprio alla vigilia della relazione che Andreotti doveva presentare in parlamento sulla Stay Behind italiana, come fece tra il 20 e il 23 ottobre 1990 – e il presidente della Dc, dalla prigione del popolo brigatista, scrisse parole al vetriolo formulando condanne per essere stato lasciato morire in nome di una presunta ragione di Stato.
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Palermo, 9 mar. (Adnkronos) - "Il nostro governo ha scelto di realizzare i termovalorizzatori con risorse pubbliche, stanziando 800 milioni di euro attraverso il Fondo per lo sviluppo e la coesione (Fsc). Questo per evitare che il costo di ammortamento potesse ricadere sui cittadini attraverso tariffe esorbitanti. Noi vogliamo evitare questo errore e garantire un sistema sostenibile dal punto di vista economico, ambientale e sociale. Non solo". Così, in un intervento sul Giornale di Sicilia il Presidente della Regione siciliana Renato Schifani. "I termovalorizzatori rappresentano una grande opportunità anche per il nostro sistema energetico- dice -In un periodo storico in cui i costi dell’energia sono sempre più elevati e la transizione ecologica è una priorità globale, trasformare i rifiuti in energia significa rendere la Sicilia più autonoma, ridurre la dipendenza da fonti fossili e creare un sistema. Il nostro cronoprogramma: entro questo marzo/aprile bando per progettazione; entro settembre 2026 inizio lavori (durata diciotto mesi). La Sicilia non può più permettersi di rimanere prigioniera dell’emergenza, della precarietà, dell’inerzia. È il momento di agire con coraggio e senso del dovere".
"Chi si oppone abbia almeno l’onestà di dire chiaramente perché e di assumersi la responsabilità di condannare questa terra al degrado e all’inefficienza- dice Schifani - Non possiamo accettare che il futuro della Sicilia venga bloccato da interessi di parte, da vecchie logiche a volte ambigue. Non possiamo più tollerare un sistema che penalizza i cittadini, le imprese e l’ambiente. La nostra Regione merita di voltare pagina. Merita un futuro fatto di pulizia, decoro e sostenibilità. Noi andremo avanti, con determinazione e con la convinzione che questa sia l’unica strada possibile. Anche se in salita. In tutti i sensi. Perché la Sicilia merita di più".
Palermo,9 mar. (Adnkronos) - "Perché, dopo vent’anni di dibattiti e promesse mancate, ancora oggi qualcuno si oppone alla realizzazione di impianti di termovalorizzazione? L’esperienza europea dimostra che questi impianti sono una soluzione efficiente e sicura per chiudere il ciclo dei rifiuti, trasformando ciò che non può essere riciclato in energia pulita. Eppure, in Sicilia si è continuato a rinviare, mentre le discariche si riempiono e i cittadini pagano bollette sempre più alte per smaltire i rifiuti altrove. È davvero un problema di tutela ambientale? No, perché i moderni termovalorizzatori sono progettati per garantire emissioni praticamente nulle, rispettando i più severi standard europei". Così il Presidente della Regione siciliana, Renato Schifani, in un intervento sul Giornale di Sicilia. "Parlare di inquinamento è oggi fuori luogo: in molte città del Nord Italia, in Europa e nel mondo, questi impianti convivono con i centri abitati senza alcun impatto sulla qualità dell’aria", dice.
"Forse si vuole difendere il business delle discariche? È un dubbio legittimo. Il sistema attuale, infatti, ha spesso alimentato interessi economici poco trasparenti, in alcuni casi perfino legati alla criminalità organizzata. E di questo ho parlato in occasione della mia audizione alla Commissione parlamentare di inchiesta sulle ecomafie", conclude Schifani.
Palermo, 9 mar. (Adnkronos) - "La Sicilia, purtroppo, vive da decenni un’emergenza che sembra diventata strutturale. Il mio governo ha individuato fin dalla campagna elettorale questo come un obiettivo primario, consapevole che la gestione dei rifiuti non è solo un problema ambientale, ma anche sociale ed economico. Abbiamo ereditato una situazione di stallo, con un sistema fondato su discariche ormai al collasso, senza un’efficace pianificazione e con una raccolta differenziata ancora insufficiente. E soprattutto, mancava uno strumento fondamentale: il Piano rifiuti, indispensabile per poter programmare e realizzare qualsiasi intervento strutturale. Lo abbiamo speditamente adottato nel novembre scorso, dopo un grande lavoro di squadra che ha coinvolto vari organi istituzionali preposti al ramo". Così, in un intervento sul Giornale di Sicilia, il Presidente della Regione siciliana, Renato Schifani,.
"Sapevamo che sarebbe stato un percorso difficile, sia dal punto di vista normativo che politico- prosegue - E a volte avvertiamo una condizione di solitudine, nel dover difendere un’idea di sviluppo che dovrebbe essere patrimonio comune, ma che invece incontra resistenze incomprensibili e a volte ambigue. Non cori da stadio, ma silenzi a volte trasversali e imbarazzanti".
"Non è un caso che il tema dei termovalorizzatori in Sicilia sia presente nel dibattito pubblico da oltre vent’anni, senza mai trovare una concreta soluzione- aggiunge Schifani - In tutto questo tempo, mentre in altre regioni italiane e in Europa si realizzavano impianti di ultima generazione per trasformare i rifiuti in energia, in Sicilia si continuava a rinviare, accumulando ritardi su ritardi e lasciando che il problema si aggravasse. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: città invase dai rifiuti, discariche sature, costi di smaltimento sempre più elevati e una dipendenza dall’estero per l’invio della spazzatura che pesa sulle tasche dei cittadini siciliani per oltre cento milioni all'anno". "Ciò che trovo più preoccupante è la rassegnazione diffusa tra i siciliani. Dopo decenni di annunci e promesse mancate, molti ormai non credono più che il cambiamento sia possibile. Ma io dico che questa volta è diverso. Questa volta il governo regionale ha fatto una scelta chiara e irreversibile: realizzare gli impianti e dare finalmente alla Sicilia una gestione moderna ed efficiente dei rifiuti. E per questo obiettivo dedico due pomeriggi al mese per monitorare di persona il percorso, spesso complesso ma che ci sforziamo di velocizzare. Per non parlare dei numerosi ricorsi presentati contro il mio piano per bloccare il tutto. A questi ci opporremo con fermezza e competenza".
Palermo, 9 mar. (Adnkronos) - I vigili del fuoco del Comando provinciale di Palermo resteranno per tutta la notte tra via Quintino Sella e via Gaetano Daita per tenere sotto controllo l'edificio in cui ieri mattina si è propagato un vasto incendio che ha distrutto l'appartamento all'ultimo piano dell'ex sottosegretario alla Salute, Adelfio Elio Cardinale, e della moglie, l'ex magistrato Annamaria Palma. I due sono riusciti a mettersi in salvo, tutti i residenti sono stati evacuati, un uomo di 80 anni è rimasto intossicato. "Le fiamme sono state circoscritte e non si propagano più. Sono in corso adesso le operazioni di bonifica che consistono nello smassamento della parte combusta e nello spegnimento dei focolai residui. Per tutta la notte sul posto sarà effettuato un servizio di vigilanza antincendio", ha spiegato in serata all'Adnkronos Agatino Carrolo, direttore regionale dei vigili del fuoco della Sicilia, da ieri mattina sul luogo del rogo.
"Abbiamo dovuto tagliare il tetto con le motoseghe. I miei uomini hanno lavorato a 25 metri su un piano inclinato di 30 gradi e abbiamo lavorato con la dovuta cautela. Tagliato il tetto si impedisce alle fiamme di propagarsi. Quindi rimangono da effettuare le operazioni di bonifica, di rimozione del materiale combusto e laddove ci sono dei focolai residui spegnerli. Oltre a questo si prevede di effettuare un'operazione di vigilanza antincendio ceh consiste in un presidio fisico a vigilare lo stato dei luoghi fino a quando non ci sarà più bisogno", ha detto.
E ha aggiunto: "Ci siamo trovati ad operare ad un altezza di 25 metri dal piano di calpestio. Dobbiamo spegnere un incendio importante di un tetto di circa 400 mq di falde e le fiamme sono particolarmente insidiose perché questa combustione è caratterizzata dal cosiddetto fuoco covante ossia una combustione in condizione di sotto ossigenazione che corre nello spazio di ventilazione del tetto. Quindi in superficie non si vede nulla ma ad un certo punto le fiamme affiorano dove è possibile".
Roma, 8 mar (Adnkronos) - "Non c’è molto da dire, se non che mi vergogno e che mi dispiace molto. Il Pd è germogliato dalle tradizioni più alte e più nobili della storia politica del Paese. Ha nel suo dna l’europeismo. Ed è di tutta evidenza che non può essere questo il nostro posizionamento". Lo scrive sui social Pina Picierno rispondendo alle proteste sui social per il post del Pd sulla questione del piano di Difesa Ue in cui si legge 'bravo Matteo' a proposito delle posizioni di Matteo Salvini.
"Mi vergogno, infatti. E sono allibita", aggiunge la vice presidente del Parlamento europeo.
Roma, 8 mar (Adnkronos) - "Ma vi siete bevuti il cervello Elly Schlein? Vi mettete a scimiottare Salvini. I riformisti sono vivi? Hanno qualcosa da dire? Paolo Gentiloni, Lorenzo Guerini certificate la vostra esistenza in vita al netto di Pina Picierno e Filippo Sensi". Lo scrive sui social Carlo Calenda, rilanciando un post del Partito democratico sulla questione del piano di Difesa Ue in cui tra l'altro si legge 'bravo Matteo' a proposito delle posizioni di Salvini.
Roma, 8 mar (Adnkronos) - "In Italia si aggira un tizio - si chiama Andrea Stroppa - che rappresenta gli interessi miliardari e le intrusioni pericolose di Elon Musk. Dopo avere espresso avvertimenti vagamente minatori e interferito sull’attività di governo, questo Stroppa ha insultato due giornalisti, Fabrizio Roncone e la moglie Federica Serra, con il metodo tipico dell’intimidazione". Lo dice il senatore del Pd Walter Verini.
"Esprimiamo solidarietà ai due giornalisti. E ci chiediamo anche cosa aspetti Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio di questo Paese, a far sentire la sua voce contro queste ingerenze, questi attacchi, questi tentativi di intimidazione a giornalisti e giornali”, aggiunge il capogruppo Pd in Antimafia.