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Chiese come magazzini: le vittime del formalismo dell’archistar

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RacalmutoIn Italia, a partire dagli anni ’70, da quando l’Accademia ha smesso di “guardare” l’architettura per “leggerla”, interpretarla, teorizzarla, metaforizzarla e cioè, da quando ha smesso di insegnarla e realizzarla, essa è morta assieme agli architetti.

 “Saper vedere l’architettura” insegnava l’architetto Bruno Zevi nel volume pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1948, accolto dalla critica mondiale con eccezionale favore e considerato il primo tentativo di promuovere un’educazione all’architettura valida per tutti, lezione poi archiviata dalla critica e dagli stessi architetti.

Chi evidentemente possiede ancora la capacità critica dello sguardo è lo storico dell’arte. E’ da questi infatti, che negli ultimi mesi sono arrivate le analisi più puntuali e aderenti alla realtà: Salvatore Settis sulla lanterna di Fuksas a Roma e Antonio Paolucci che, due giorni fa, in occasione della presentazione del volume “Chiese della periferia romana” edito da Electa, sulle nuove parrocchie costruite negli ultimi 20 anni a Roma afferma: ”Più che nuove chiese sembrano musei o grandi magazzini. Ambienti che non invitano alla meditazione, privi del senso del sacro e senza nessun afflato mistico-religioso“.

Come dargli torto? A partire dall’innovazione e dall’idea di “reinventare” lo spazio sacro, in un trionfo di formalismo spettacolare e gratuito, di bulimia volumetrica e autorefenziale, sono state costruite chiese cilindriche claustrofobiche come pozzi artesiani; a forma di cubo in cemento faccia vista, evocative come garage condominiali; a dischi sovrapposti come torte di compleanno; con fronti voltate e vetrate come centri commerciali anni ’90.

Chiese vittima della fiera-campionaria dell’elemento architettonico: colonne binate e lesene, cornici doppie e travi a vista coesistono e resistono in un’unica facciata; chiese “de-costruite” come colpite da un violento sisma; chiese pensate come un impianto di climatizzazione, con i sacri volumi a forma di condotta di distribuzione e bocchettone dell’aria. 

chiese decostruite - esempioE poi, un purgatorio di varianti volumetriche: con imprudenti e impudenti rotazioni, nevrotici slittamenti percettibili e infinitesimali, sovrapposizioni spericolate, aggetti temerari. Coperture a setti come vele, con travi a vista come onde marine, a forma ellittica come foglie lanceolate, pluri-terrazzate come stabilimenti balneari. All’interno, scardinata croce greca, latina e il secolare orientamento, ci si ritrova smarriti in un “loft”, con lo sguardo si annaspa in direzione di un  tabernacolo che c’è ma non si vede, si cerca invano il riparo di una navata che non si vede perché non c’è.

Chiese trasparenti, bianche, levigate e luminose come produttivi edifici per uffici, dove non ci si può rifugiare nella penombra, ritrovare se stessi, piangere una persona cara. Chiese spoglie e spogliate dell’arte, del conforto della cultura iconografica scultorea e pittorica, della complessità della sequenza spaziale e dei luoghi della liturgia che ne facevano meta visitabile di praticanti e laici.

E’ la Curia, la prima vittima illustre dell’incarico diretto al sistema modaiolo ego-ipertrofico e un po’ cafone dell’archistar, che ha prodotto un catalogo vario e avariato del tipo Chiesa che – più che simboleggiare l’inizio del nuovo millennio -sembra segnare la fine della chiesa millenaria. 

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