Cinema

Cannes 2013, Inside Llewyn Davis: ecco la tragi-follia dei fratelli Coen

Il 66° Festival non potrà trascurare dal palmares i Bros. La loro ultima pellicola è infatti tra i titoli finora migliori in concorso sulla Croisette. Nonché della loro più recente filmografia. A interpretare Llewyn Davis come meglio non si poteva è Oscar Isaac, finora il più accreditato al premio per l’interpretazione maschile

di Anna Maria Pasetti

Lunga vita ai fratelli Coen. Che il 66° Festival di Cannes non potrà trascurare dal palmares. Il loro ultimo sforzo – Inside Llewyn Davis – è infatti tra i titoli finora migliori in concorso sulla Croisette. Nonché della loro più recente filmografia. Protagonisti assoluti di questa domenica finalmente rasserenata, Joel & Ethan Coen hanno siglato un film perfettamente intonato alle loro corde, sinteticamente rappresentativo di quell’universo d’umana tragi-follia che li ha resi autori di culto. Al centro è la figura immaginaria del cantautore folk Llewyn Davis che trova radici d’ispirazione in Dave Van Ronk, soprannominato “The Mayor of MacDougal Street”, e tra gli indiscussi protagonisti della scena del Village newyorkese tra la fine dei ’50 e gli inizi dei ’60. Al suo fianco “strimpellava” un ragazzo di nome Bob, la cui esistenza e carriera avrebbero avuto esiti notoriamente più luminosi.

“Abbiamo un rapporto genuino e di profondo rispetto per la musica, da sempre rivestita di un ruolo vitale nei nostri film”, annunciano i Bros. per l’occasione accompagnati dal “mitico” T Bone Burnett nelle vesti di produttore musicale esecutivo. “Ci affascinava il mondo socio-musicale dell’area di Greenwich e l’abbiamo esplorata raccontando l’insuccesso di un ragazzo talentuoso ma umorale e teso all’autodistruzione come Llewyn Davis”. Un tipico “Coen character” verrebbe da definirlo per l’ironica naturalezza con cui si lascia travolgere dalle sfortune di un’esistenza marginale. A interpretarlo come meglio non si poteva è Oscar Isaac, finora il più accreditato al premio per l’interpretazione maschile. Struggente fino ai brividi per chi l’osserva/ascolta suonare/cantare, Isaac si è mostrato attore a tutto tondo com’è tipico della tradizione anglosassone: sembra l’incarnazione di un cantautore folk professionista al pari del suo collega sul set Justin Timberlake, pure bravo ma di altra pasta. Malinconico, struggente, divertente, commuovente, spiazzante e poetico, Llewyn Davis è il personaggio “coeniano” più limitrofo in versione soft al nerissimo A Serious Man, con altrettanto e immancabile Jewish humour. Un “loser” consapevole, teneramente lirico. Nel cast anche Carey Mulligan e il solito “immenso” John Goodman, capace di rendere la decadenza dentro al corpo sfatto dell’opulenza a stelle e strisce.

I Coen, a detta loro, non sanno definire il successo, “ci viene più semplice rappresentare l’insuccesso, come in questo caso”. La dichiarazione non esprime notizia per chi conosce la filmografia dei due geniali fratelli ma offre un assist a introdurre un’altra punta di diamante – fuori concorso – presentata oggi a Cannes 2013. Si tratta del documentario di James Toback (autore anni fa di un divertente docufilm su e con Mike Tyson) dall’emblematico titolo “Seduced and abandoned”. Nessun riferimento al capolavoro di Pietro Germi, bensì un’ironica e realistica testimonianza di come, oggi, fare cinema appartenga per il 95% al mondo delle buone intenzioni (leggi: sogni) e al 5% a quello della concretezza (leggi: fatti). La crisi è penetrata, ovunque. Toback ha girato il suo doc a Cannes insieme all’attore amico Alec Baldwin lo scorso anno, proprio per “calcare fisicamente” il cuore dello show biz, il Marché du film. Dalle interviste a innumerevoli personalità (tra i top names Scorsese, Polanski, Bertolucci, Coppola, Ryan Gosling, Jessica Chastain, James Caan..) si evince la fatica, lo sfinimento, la sfiducia anche verso i progetti migliori. Conta lo “star meter” (il termometro delle star) a determinare se l’investimento vale o meno la firma dell’assegno. Persino da parte di chi, di soldi, ne avrebbe da buttare fino al prossimo secolo. Forse per questo che il sapiente finale del documentario accosta il senso ultimo del cinema alla morte: “Tu ha paura di morire?” è la domanda a cui nessuno degli intervistati ha saputo dare una risposta degna del proprio “star meter”, appunto. 

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