Alla fine il risultato è una sinistra spaccata e i partiti che finiscono gambe all’aria. Vince il no al finanziamento pubblico alle scuole (58,8 per cento a favore del quesito A, il 41,2 per cento a favore dell’opzione B secondo i dati parziali), ma il referendum consultivo e non vincolante è stato comunque un mezzo fiasco: hanno votato neanche uno su tre degli aventi diritto, 85.934, pari al 28,71 per cento. Un flop per il Pd, un flop per Bologna. Ma soprattutto un flop per i partiti che non sono riusciti a portare le persone al voto.
Nonostante non dovessero esprimersi solo il milione di euro, che ogni anno finisce dalle casse comunali a quelle delle scuole materne private. E nemmeno su quei 400 bambini rimasti in attesa di un posto che lo Stato non riesce a garantire. Quello del 26 maggio è stato un referendum sull’identità del centrosinistra, in una città che ormai è rossa sbiadita. E non solo: è stato un indice di gradimento reale sul sindaco, Virginio Merola, che fin dall’inizio ha fatto propria la crociata per difendere il sistema integrato pubblico-privato. Sul sindaco e soprattutto sul Pd, che sul terreno dell’istruzione ha scelto si andare a braccetto col Pdl, la Lega e la Curia, simbolo della Bologna che conta e ha sempre contato. Dentro e fuori dalle chiese.
E se è vero, come ha detto Romano Prodi, che questo voto si poteva evitare, il Pd si è tuffato nella sfida della campagna referendaria con tutte le sue forze. Ha messo in moto la macchina del partito, ha organizzato feste dell’Unità a tema, ha chiesto aiuto alle parrocchie, tutto per convincere i bolognesi a tracciare un simbolo sulla B. Una B. che vuol dire – almeno in parte – anche Berlusconi e le larghe intese che governano il Paese.
Il via vai ai seggi inizia alle 8. Arriva il sindaco, Virginio Merola, puntuale alle 10. Non una parola oltre a quelle di rito: “Auguro buona fortuna a entrambi i fronti, quelli della A e quelli del B. Domani avanti insieme per Bologna”. E poi una processione di famiglie con bambini a seguito, coppie e singoli. Ciascuno con la carta d’identità in mano e la sua certezza in tasca. “Voto A perché la Costituzione parla chiaro: i soldi pubblici vanno alle scuole pubbliche”. “Voto B perché questo sistema mi piace e mio figlio alle paritarie si è trovato benissimo”. Si vedono anche tante tonache di frati e suore, tanto per ricordare che 25 delle 27 scuole d’infanzia convenzionate sono cattoliche. “Se aboliscono i finanziamenti si alzano le rette. Così noi suore invece che occuparci dei poveri, ci occuperemo solo dei ricchi”.
La partenza però è in salita. Le code sono poche e alcuni seggi deserti. Alle 12 ha votato solo l’8,75% degli aventi diritto al voto, che tradotto significa poco più di 23 mila persone. Nemmeno uno su dieci. Per questo all’ora di pranzo i volti tra i referendari, sparsi per i 200 seggi a vigilare sulle operazioni di voto, sono scuri. Il boccone del panino preso in fretta e furia al bar va di traverso: “Speriamo nel pomeriggio” scuotono la testa. E in effetti dopo le 13 i numeri si alzano, anche se non di molto: oltre il 23% di affluenza alle 19. A guardare il bicchiere mezzo pieno è Romano Prodi, il padre fondatore dell’Ulivo e di quel sistema di convenzioni con le scuole private, oggi sotto accusa. L’ex premier arriva al seggio accompagnato dalla moglie Flavia, poco dopo le 17.30. Al presidente chiede subito i dati sulla affluenza e non si stupisce della risposta: “Non sono elezioni politiche, è un referendum su un argomento particolare, che non tocca tutti. Quelli interessati sono andati a votare e questo è importante”.