La prima udienza del processo in cui lo Stato processa se stesso, si fa segnalare soprattutto per l’assenza dello Stato. O meglio di alcuni di quei rappresentanti delle istituzioni che, secondo la procura di Palermo, avrebbero trattato con Cosa Nostra durante il biennio al tritolo che insanguinò il Paese tra il 1992 e 1994.
Contumace l’ex senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, considerato dall’accusa l’uomo cerniera tra Berlusconi e Cosa Nostra e definitivo firmatario del patto con i boss. Contumace il generale del Ros Mario Mori, che avrebbe condotto la prima fase operativa della trattativa. Contumace il suo braccio destro Giuseppe De Donno, l’uomo che per primo aprì un contatto con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, tramite il figlio Massimo, uno dei testimoni principali dell’inchiesta sulla trattativa e oggi imputato (presente) di concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia. A rappresentarli in aula ci sono gli avvocati, ma loro hanno preferito non farsi vedere.
Non c’è nemmeno l’ex ministro Calogero Mannino, che per i pm è l’uomo che per primo cercò di aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra, ma che ha scelto di essere processato con il rito abbreviato. Assente anche il “ragioniere” della trattativa, Bernardo Provenzano, la cui posizione è stata stralciata in attesa di capire quanto le sue condizioni di salute gli consentano di essere correttamente processato.
Per la prima udienza del processo sulla tattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, all’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo ci sono soprattutto i boss mafiosi collegati in videoconferenza. Sarà per questo che Nicola Mancino sbotta entrando in aula: “Non voglio essere processato con i mafiosi”. Poi si siede, in silenzio, immobile. Piantato sulla sedia, accerchiato dai suoi avvocati, è l’obiettivo più ricercato dalle telecamere e dalle mitragliate di flash dei fotografi. Fuori dall’aula uno sparuto gruppo di Agende Rosse, il movimento di Salvatore Borsellino, lo ha salutato urlandogli “vergogna”. “Ad Angela Napoli – urlano – hanno levato la scorta, lui invece è ancora protetto”.
Presente in aula, oltre all’ex ministro dell’Interno, anche il generale Antonio Subranni, al vertice del Ros negli anni ’90 e quindi superiore di Mori e De Donno. “Le presento il generale Subranni, suppongo non vi conosciate” dice Basilio Milio, avvocato del generale, a Mancino. Che prontamente risponde: “No, non suppone niente, io non l’ho mai conosciuto. Di nome sì, che qua viene fuori che chi deve essere noto diventa ignoto”.
L’ex ministro dell’Interno è accusato di falsa testimonianza, ma il pm Vittorio Teresi (che insieme ai sostituti Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia rappresenta la pubblica accusa) ha preannunciato la contestazione di un’aggravante: aver mentito per coprire tutti gli altri imputati, quelli accusati di violenza a un corpo istituzionale dello Stato. Il procuratore aggiunto non ha fatto in tempo a contestarglielo formalmente, perché la corte vuole prima definire le numerosissime costituzioni di parte civile. Tanto basta perché Mancino si allontani dall’aula non volendo commentare la contestazione dell’accusa. “Prima sentiamola poi vediamo” dice ai cronisti.
Poco dietro, accanto a Salvatore Borsellino, c’è anche Giulia Sarti, la deputata emiliana del Movimento Cinque Stelle, che nelle scorse settimane era intervenuta alla Camera dei Deputati per sottolineare il grave isolamento del pm Di Matteo. Al magistrato palermitano nei giorni scorsi è stata recapitata una seconda lettera anonima. “Il nemico ti spia, come e quando vuole. Attenzione a quando parli, alle auto su cui viaggi, al telefono cellulare. E come se avessi vicino a te una microspia” dice l’anonimo estensore al pm che da anni porta avanti l’inchiesta sulla trattativa. Avvertimenti sinistri e minacciosi che appesantiscono ulteriormente il clima del più importante processo degli ultimi anni.
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