Dopo oltre sessant’anni di sanguinoso conflitto, il governo colombiano e i guerriglieri delle Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) hanno annunciato domenica scorsa a Cuba di avere raggiunto un accordo sulla questione agraria, la vera origine della contesa, che apre finalmente uno spiraglio di pace nel futuro del paese. “Un accordo storico, che attraverso la trasformazione delle terre agricole porterà alla rinascita del paese”, lo ha definito il negoziatore del governo colombiano Humberto de La Calle. Mentre il portavoce delle Farc Ivan Marquez è stato più cauto, e ha parlato di “un primo passo avanti”. Nel documento congiunto firmato domenica a L’Avana, dopo diversi mesi di trattativa condotta con la mediazione dei governi cubano, venezuelano e norvegese, è stato concordato tra governo e guerriglieri “l’inizio di trasformazioni radicali nella realtà agraria e rurale della Colombia, su base equa e democratica, verso un futuro di pace”.
In un paese in cui la distribuzione dei terreni agricoli è una delle meno egalitarie del mondo, con l’1% della popolazione che possiede il 52% delle terre, secondo gli ultimi dati del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, il nuovo accordo prevede l’accesso per i campesinos alle terre incolte, la creazione di un fondo specifico, e la costruzione delle infrastrutture necessarie allo sviluppo economico e sociale nel nuovo piano agricolo colombiano. Inoltre, saranno avviati investimenti nello sviluppo sociale come salute, educazione, casa e sradicamento della povertà. Altro punto fondamentale, come spiegato dalle Farc, è “il risarcimento delle vittime delle espropriazioni e delle deportazioni forzate”. Sempre secondo i dati delle Nazioni Unite, infatti, solo il 22% della terra disponibile è coltivata, e ben 6,5 milioni di ettari sono stati espropriati, rubati o confiscati durante il conflitto tra il 1985 e il 2008.
La riforma agraria e la difesa dei diritti dei campesinos sono le lotte attorno a cui oltre mezzo secolo fa nacque e si consolidò il movimento guerrigliero delle Farc. Poi il conflitto è degenerato. I vari governi colombiani, tra i più fedeli alleati degli Stati Uniti nella loro opera di contenimento contro l’avanzata del marxismo nell’America Latina, ricevevano ingenti aiuti economici e militari da Washington e attuavano una delle repressioni più sanguinose nei confronti di contadini e popolazioni indigene. Dal canto loro le Farc, arroccatesi sempre di più nella coltivazione della cocaina – la stessa che poi finiva negli States quale paese maggior consumatore – diventavano un’organizzazione paramilitare tutt’altro che marxista, con codici di comportamento spietati e prassi contrarie ai diritti umani.
Per questo, in un referendum ad aprile due terzi della popolazione colombiana ha dichiarato di non volere alcun accordo con le Farc. O meglio di quello che rimane di un ex movimento guerrigliero oramai decimato, che aveva perso di vista qualsiasi obiettivo riformista e si dedicava al narcotraffico. Va però detto che, quando alcune fazioni delle Farc hanno tentato la via democratica attraverso la fondazione del partito di Unione Patriotica, sono stati represse nel sangue: oltre 3mila loro militanti, regolarmente candidati o eletti a varie cariche pubbliche, sono stati trucidati dai paramilitari. Così come i fuoriusciti dalle Farc che avevano provato a creare il movimento legalitario M19, sono stati eliminati quasi tutti, e di loro oggi non è rimasto in vita praticamente nessuno. Mentre dall’altra parte i paramilitari di destra, addestrati con l’aiuto di Washington, commettevano indisturbati atroci massacri.
Lo sa bene l’attuale presidente colombiano Juan Manuel Santos, che era ministro della Difesa del governo di Uribe quando un Rapporto Speciale delle Nazioni Unite del 2009 scrisse di “esecuzioni sommarie da parte dei paramilitari” e della loro “totale impunità”, anche se non riuscì a identificare “ordini diretti da parte del governo”. Diventato presidente, oggi Juan Manuel Santos è uno dei più grandi sponsor dell’accordo con le Farc, che vorrebbe affrettare in vista delle elezioni presidenziali del 2014, dove vuole ricandidarsi come l’uomo della pace. Sempre nel 2014 torneranno infatti in libertà alcuni capi paramilitari, dopo i canonici otto anni di prigione ed estradizione negli Stati Uniti. Perché fino a oggi in Colombia i campesinos morivano in patria difendendo la propria terra, e i pochi paramilitari condannati scontavano la pena al nord. Tanto che il premio Nobel colombiano Gabriel Garcia Marquez, in un suo libro ha scritto lapidario: “Preferiamo una tomba in Colombia che una cella negli Stati Uniti”. Con l’accordo sulle terre e la riforma agraria diventa più concreta la speranza di una terza alternativa, e di una pace possibile.