Gran parte delle testate giornalistiche italiane stanno presentando gli scontri in corso a Istanbul come una battaglia tra la popolazione e le forze dell’ordine per salvare i 600 alberi del parco Gezi che, secondo i piani del governo di Erdogan, avrebbero dovuto lasciare il posto a un centro commerciale e a lotti abitativi di alto valore commerciale proprio nel cuore della megalopoli turca.
Per quanto sia estremamente romantico pensare ad un risveglio ambientalista del popolo turco, una simile lettura rischia di rivelarsi di sconcertante superficialità e di tralasciare i numerosi elementi che stanno alimentando la seconda giornata di scontri sul Bosforo.
Dopo quattro giorni di pacifica occupazione da parte della popolazione del parco situato nel centro storico di Istanbul, la polizia è intervenuta ieri armata di cannoni spara acqua, spray al pepe e lacrimogeni per allontanare i manifestanti e consentire l’ingresso alle macchine movimento terra che avrebbero avuto il compito di sventrare il Gezi park.
Il feroce intervento della polizia, ripreso coi telefonini da parte dei manifestanti, ha presto fatto il giro della rete attraverso i principali social media e ha scatenato un’ondata di indignazione prima da parte della popolazione urbana di Istanbul e poi delle altre città dell’Anatolia. Maggiore l’impegno profuso dalla polizia per disperdere i manifestanti, maggiore è stato il numero di persone che scendeva in piazza per protestare e opporsi allo smantellamento del parco.
La decisione di distruggere il parco Gezi è la classica goccia che fa traboccare il vaso e che arriva dopo anni di crescente insoddisfazione di buona parte della popolazione nei confronti del governo guidato dall’AKP, il Partito filo islamico per la Giustizia e lo Sviluppo, capeggiato dal premier Recep Tayyip Erdogan, al potere dal 2002.
Gli ambientalisti non perdonano al governo un’idea di sviluppo economico basato sulla cementificazione e sullo smantellamento del patrimonio naturalistico: si pensi in particolare al progetto per la costruzione del terzo ponte sul Bosforo che prevede l’abbattimento di oltre un milione di alberi nelle colline intorno a Istanbul per risolvere il problema del traffico in città.
I kemalisti non perdonano al governo l’abbandono dell’idea della Turchia come stato laico, così come voluto dal fondatore della repubblica turca, Mustafa Kemal Ataturk: hanno fatto molto discutere nel corso degli ultimi anni alcune misure che permettono un riavvicinano della religione agli organismi statali, quali l’ammissione dei simboli religiosi (in particolare il velo per le donne) all’interno degli uffici pubblici, la destinazione di ingenti somme di denari pubblici per la costruzione di moschee e il costante tentativo di inibire l’uso dell’alcool da parte della popolazione (pochi giorni fa è stato fatto divieto di vendere bevande alcoliche negli orari notturni).
I nazionalisti non perdonano a Erdogan la rimozione dei vertici dell’esercito (considerato da più parti come l’organismo con il compito de facto di tutelare l’integrità dello stato) e la sostituzione con figure su posizioni filo islamiche.
Ma soprattutto quello che non viene perdonato al governo è la linea oscurantista portata avanti sui principali canali di informazione: mentre su Facebook e Twitter ieri l’unico argomento di discussione erano gli scontri di piazza Taksim, tutte le televisioni turche continuavano la normale programmazione evitando accuratamente di parlare del Gezi Park. Nel corso dei telegiornali di ieri sera, l’unica fugace apparizione del premier Erdogan ha riguardato la sua ferma condanna al fumo in occasione della giornata mondiale alla lotta al tabagismo, tutto questo mentre il centro di Istanbul era ricoperto (ironia della sorte) da una densa coltre di fumo generata dai lacrimogeni sparati dalla polizia anche dagli elicotteri sui manifestanti.
La Turchia è uno dei paesi al mondo con il più alto tasso di penetrazione dei social media e proprio le evidenti contraddizioni tra le notizie riportate su Facebook e Twitter da una parte e il silenzio da parte degli organi di stampa tradizionale dall’altra hanno alla fine creato una miscela esplosiva che ha portato allo svilupparsi di manifestazioni contro il governo in pressoché ogni città del paese. In città come Smirne e Ankara, i cittadini scesi pacificamente in piazza sono stati oggetto di lanci di lacrimogeni e cannoni spara acqua da parte della polizia. Manifestazioni antigovernative hanno avuto luogo anche a Konya, città tradizionalmente ultraconservatrice e roccaforte dell’AKP. A Istanbul le proteste sono invece riuscite a unire anche le tifose tradizionalmente divise del Galatasaray e del Fenerbahçe per opporsi alle violenze della polizia. Intanto nella notte autobus carichi di manifestanti sono partiti da tutte le città del paese per confluire sul Bosforo.
Quella che era nata come una pacifica protesta ambientalista ha con il tempo assunto la forma di un’accesa battaglia per la libertà di stampa e di opinione proprio in un paese che si colloca al primo posto nel mondo per numero di giornalisti imprigionati (76), spesso accusati di essere sostenitori dei gruppi terroristici curdi, alcune volte di vilipendio alla religione o agli organi dello stato, altre volte ancora senza alcun capo di imputazione preciso.
Proprio la paura che regna sovrana tra i giornalisti dall’altra parte del Mediterraneo fa sì che le informazioni si susseguono in modo discontinuo e quindi spesso inattendibili: si parla di almeno due morti e centina di feriti e arrestati, l’hotel Hilton di Istanbul è stato trasformato in una sorta di pronto soccorso di emergenza per assistenza sanitaria ai manifestanti feriti e sembra che la polizia abbia fatto ricorso a proiettili di gomma e a lacrimogeni sparati sui manifestanti dagli elicotteri in volo sulla città.
Paradossalmente proprio Erdogan che si era eretto a paladino dei rivoltosi in tutti gli episodi della primavera araba, si ritrova adesso ad essere contestato dai proprio concittadini in quella che in molti hanno già definito primavera turca. In ogni caso, il susseguirsi di tweet che utilizzano l’hashtag #occupygezi dimostrano una rabbia crescente che difficilmente si esaurirà nella giornata di oggi e il premier turco annuncia a mezzo twitter che il muro contro muro è già iniziato: “se l’opposizione riunirà centomila persone, noi ne riuniremo un milione”.
Foto da Twitter