Segretezza. Controllo su ogni minimo dettaglio delle udienze. E’ ciò che ha contraddistinto i primi due giorni del processo a Bradley Manning, il soldato Usa finito davanti a una corte marziale con l’accusa di aver fornito migliaia di documenti “sensibili” a Wikileaks. Ai giornalisti è stato chiesto di firmare un impegno a non rivelare i nomi dei portavoce dell’esercito sul posto, perché alcuni di questi avrebbero “già ricevuto minacce di morte”. Un vero e proprio muro di militari ha circondato il 25enne Manning, almeno nella seduta di lunedì, impedendo ai fotografi di riprenderlo. E a reporter e televisioni è stato persino impedito di intervistare la gente che stazionava fuori dell’aula di Fort Meade, dove si svolge il processo.
Il giudice militare che sovrintende al caso, il colonnello Denise Lind, ha scelto quindi la linea dura, anche se durante l’udienza di martedì è sembrato che alcune delle restrizioni decise per il primo giorno siano state allentate. Lunedì era stato addirittura chiesto a parte del pubblico che entrava nell’aula – molti di questi membri del Bradley Manning Support Network, che indossavano una maglietta con la scritta “Free Bradley Manning” – di coprire la maglietta o di indossarla al contrario, in modo da non rendere visibile l’appello alla liberazione del soldato. La decisione – e tutto l’apparato di sicurezza messo in piedi dall’esercito – sono sembrati alla fine esagerati anche ad alcuni esponenti del mondo militare, tali da rinfocolare, più che placare, l’interesse attorno al caso.
L’amministrazione Obama e tutto il complesso militare e dell’intelligence statunitense si è del resto mosso, in questi mesi di detenzione di Manning, soprattutto in due modi: mantenere una fitta coltre di segretezza su tutta la vicenda, sino a rendere lo stesso Manning una sorta di oggetto non identificato, de-umanizzato, di cui non si conosce voce e viso; arrivare a una sentenza “esemplare” nei confronti del “private”, che possa dissuadere altre, future fughe di notizie. Le prime mosse del processo a Manning non si sono comunque rivelate particolarmente favorevoli all’accusa. Adrian Lamo, l’hacker che informò le autorità USA del fatto che Manning aveva passato informazioni sensibili a Wikileaks, ha escluso che il soldato volesse col suo gesto “aiutare il nemico”. Lamo, sotto giuramento, ha spiegato di aver iniziato a chattare con Manning il 20 maggio 2010, e di aver continuato a comunicare con lui per i successivi sei giorni.
“Il soldato Manning le ha mai detto di voler aiutare il nemico?” ha chiesto l’avvocato della difesa, David Coombs. “Non in questi termini, no”, ha risposto Lamo. L’hacker, che è stato condannato nel 2004 per essersi introdotto nei sistemi del “New York Times” e di Microsoft, ha anche spiegato che Manning l’aveva contattato proprio per la sua notorietà nella hacking community e per il sostegno dato da Lamo alle richieste della comunità omosessuale. La dichiarazione dell’hacker davanti alla Corte marziale è apparsa comunque come un colpo piuttosto duro alla tesi principale dell’accusa, che intende provare che Manning con le sue rivelazioni a Wikileaks aiutò di fatto il nemico e mise in pericolo la vita di migliaia di soldati americani. Le autorità Usa hanno più volte affermato di poter dimostrare che Osama bin-Laden chiese e ottenne da un affiliato di al-Qaeda i rapporti riservati sull’Afghanistan che erano finiti nelle mani di Julian Assange e Wikileaks. Se dimostrata, la tesi dell’“aiuto al nemico” potrebbe costare l’ergastolo a Manning.
Sin dalle prime battute del processo, è invece apparsa chiara la strategia della difesa. Manning si è dichiarato colpevole di 10 dei 21 capi d’accusa che gli sono contestati, ma non di quello più grave, appunto “l’aiuto al nemico”. Manning e la sua difesa hanno sempre energicamente sostenuto che i “leaks”, le fughe di notizie, furono la strada scelta dal giovane soldato per allargare tra gli americani la consapevolezza di cosa stava succedendo, in termini di crimini e disprezzo per la vita umana, in Iraq e Afghanistan. Tra i documenti resi pubblici da Manning, che si trovava in Iraq con la qualifica di “analista”, ci sono i rapporti che raccolgono gli abusi sui detenuti iracheni da parte dei militari Usa, così come quelli che riportano le cifre sulle morti civili, sempre nel conflitto in Iraq. L’avvocato di Manning ha anche spiegato che al tempo del passaggio delle informazioni a Wikileaks, il soldato stava vivendo un periodo difficile legato al suo essere gay in un ambiente, quello militare, che ancora non riconosceva gli omosessuali – la “Don’t Ask, Don’t Tell” non era ancora stata cancellata. Proprio questo stato di intensa e dolorosa riflessione personale condusse Manning – secondo la difesa – alla convinzione che “doveva agire per fare la differenza in questo mondo”.
Per il resto, i primi due giorni del processo sono stati dedicati a chiarire il background umano e professionale del giovane soldato – che si è presentato davanti alla Corte marziale in uniforme ed è rimasto sempre in silenzio, parlando soltanto occasionalmente e a bassa voce col suo avvocato. Troy Moul, un istruttore civile, ha raccontato della formazione di Manning come “intelligence analyst” a Fort Huachuca, in Texas. Moul ha raccontato che il ragazzo “interagiva molto poco con i compagni” e che divenne l’oggetto di scherzi e battute per la sua attitudine a “fare continue domande”. Moul ha anche spiegato che durante il corso Manning creò un video su Youtube in cui raccontava quanto imparato nei suoi corsi di analista. Non ci fu, allora, diffusione di alcuna informazione sensibile, ma gli insegnanti ordinarono al ragazzo di rimuovere il video e preparare una relazione su come si gestisce la sicurezza dei dati. Tra le evidenze presentate dall’accusa, 550 documenti, c’è stata anche la foto di un cappio che Manning preparò nella sua cella in Kuwait, poco dopo l’arresto, e che testimonierebbe delle tendenze suicide del ragazzo e della necessità di tenerlo in isolamento. La difesa ha invece accusato l’esercito di aver sottoposto Manning a un trattamento particolarmente brutale e punitivo, che arrivò a tenerlo confinato in una cella senza finestre per 23 ore al giorno, spesso completamente nudo. La tesi della difesa è già stata accolta dal giudice Lind, che ha ordinato come compensazione che Manning riceva uno sconto di 112 giorni su qualsiasi pena futura.
Il processo dovrebbe, secondo le previsioni, concludersi il prossimo agosto. Molte udienze saranno chiuse al pubblico, come resteranno coperte dal segreto anche ampie parti del procedimento istruttorio. Proprio per chiedere che gli atti del processo vengano resi pubblici, il “Center for Constitutional Rights”, Wikileaks e alcuni giornalisti, sostenuti da una trentina di testate tra cui “Associated Press” si sono rivolte a un’altra corte del Maryland, lo Stato dove si svolge il processo. Il clamore nazionale e internazionale, come pure la battaglia legale e civile che sta dietro il caso, rendono il processo a Bradley Manning il caso più importante in tema di trasparenza degli atti del governo dai tempi dei “Pentagon Papers”. Allora, era il 1971, uno scontro epico tra il “New York Times” e l’amministrazione di Richard Nixon su 7000 pagine che dettagliavano il comportamento e le menzogne del governo Usa in Vietnam portarono a una sentenza storica della Corte suprema che proteggeva il Primo Emendamento e la libertà di informazione.