No, non è la riedizione di Messico ’68. E, per quanto sia sempre molto arrischiato avventurarsi in drastiche profezie, credo si possa in tutta tranquillità affermare che non s’intravvede – tra i le nuvole dei gas fumogeni che, in questi giorni, riempiono le strade e le piazze di pressoché tutte le metropoli brasiliane – alcuna possibile replica, sia pure in dimensioni ‘bonsai’, della strage di Tlatelolco. Il Brasile d’oggi è lontano, lontanissimo dal Messico che, regnante Gustavo Díaz Ordaz, più di 44 anni or sono – quando non mancavano che dieci giorni all’inaugurazione dei Giochi Olimpici – sparò a raffica contro gli studenti che affollavano la piazza delle Tre Culture.
E tuttavia vale forse la pena analizzare la protesta brasiliana – la prima di consistenti dimensioni dal 1984, quando il movimento ‘Diretas Ja’ portò milioni di persone in piazza contro la dittatura militare – partendo proprio dalle analogie (poche, ma interessanti) e dalle differenze (moltissime e profonde) che legano i due eventi.
Le analogie (due, fondamentalmente), tanto per cominciare. Il Messico del ’68 era, come il Brasile di questi giorni, un paese in piena espansione. E come il Brasile d’oggi – impegnato nella Confederation Cup e pronto a lanciarsi verso lo storico ‘doblete’ del Mondiale di calcio (2014) e delle Olimpiadi (2016) – bussava orgogliosamente alle porte del primo mondo organizzando grandi manifestazioni sportive. Tanto nel Messico d’allora, quanto nel Brasile di oggi, a protestare non erano i poveri ed i diseredati (come sarebbe avvenuto nel 1989 durante ‘Caracazo’ venezuelano, o come, sia pure in forma meno netta, accadde nei giorni del ‘Que se vayan todos’, nell’Argentina del 2001), ma i giovani di una emergente classe media. Di fatto: proprio coloro che più avevano beneficiato dell’espansione economica o, se si preferisce, i figli del ‘boom’.
In Messico – e qui cominciano le differenze – al centro delle richieste del movimento studentesco c’era una richiesta di democrazia, l’esigenza d’uscire dalle strettoie d’un regime dominato da un partito-Stato (il Partido Revolucionario Institucional) che sovrastava un pluralismo di facciata (o una “dittatura perfetta” come la chiamò Mario Vargas Llosa). In Brasile – nel Brasile nato dalla lotta alla dittatura militare, passato indenne attraverso la crisi del debito, l’impeachment di Collor de Mello e, quindi forgiatosi negli anni di Fernando Henrique Cardoso prima, e di Lula da Silva poi – vige invece una democrazia, forte, piena.
In Messico l’espansione della fine degli anni ‘60 – e più ancora quella degli anni ’70, nel pieno del boom petrolifero – non era che un’illusione, il preludio della crisi del debito, del ‘default’ del 1982, degli ‘ajustes’ neoliberali e di quella che, in tutta l’America Latina, sarebbe poi passata agli archivi come ‘la decada perdida’.
L’ascesa del Brasile è, invece, parte essenziale di un’inarrestabile trasformazione dell’economia globale, quella marcata dalla crescita di nuovi e tutt’altro che effimeri protagonisti (i cosiddetti BRICS, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). In Messico Díaz Ordaz ed il suo segretario de gubernación (quel Luís Echeverria che sarebbe poi diventato presidente) uccisero – e non solo in senso metaforico – il movimento.
Dilma Rousseff ha invece promesso – e non c’è ragione per non crederle – di ‘ascoltare la voce della piazza’.
In Messico il movimento che portò alla Piazza delle Tre Culture era parte d’un sussulto planetario – dal maggio Parigino, alla primavera di Praga – che, sospinto da eventi di storica portata (il Vietnam, la fine del colonialismo, la Guerra Fredda) si nutriva, ovunque, di grandi ideali. Quello che colpisce, nel caso del Brasile di queste ore è, invece, proprio l’infima – tanto infima e ‘deideologizzata’, in effetti, che si stenta a cogliere la relazione tra causa ed effetto – origine delle manifestazioni e dei disordini.
Tutto è cominciato a causa dell’aumento dei prezzi dei trasporti pubblici a Sao Paulo: da 3,00 a 3,20 reali. Come dire: da 1,60 euro a 1,85 euro. Ed a capo delle manifestazioni che sono seguite non c’era alcuna grande organizzazione di massa – un partito, o un sindacato, come quello dei metallurgici di Sao Paulo che, negli anni ’80 vide l’emergere del dirigente operaio Luiz Inácio Lula da Silva – ma un movimento fino a ieri semi-sconosciuto: ‘Passe Livre’ (biglietto gratis). Una cosa del tutto analoga – e, in questo caso si tratta di una analogia che conta – era accaduto nel 2006 in Cile, quando, proprio per protestare contro le inefficienze del Transantiago, il sistema di trasporti pubblici di Santiago, gli studenti scesero in piazza dando vita ad un movimento che è ancor oggi uno dei protagonisti della vita politica cilena.
Il grande paradosso del caso brasiliano è, in fondo, proprio questo. La gente che scende in piazza non perché sta peggio ma perché sta meglio di ieri. E questa è anche l’essenziale differenza che – accanto a molte e più superficiali similitudini – divide gli ‘indignados’ di Sao Paulo e di Rio, da quelli di Madrid, di Roma o di Atene. Più esattamente: a Sao Paulo, a Rio e a Belo Horizonte quelli che protestano sono i figli d’una classe media che, in questi anni ha conosciuto, in pressoché tutti i paesi latinoamericani (quasi tutti sospinti dall’auge dei prezzi delle materie prime e, quasi tutti, capaci di conseguire eccellenti risultati nella lotta contro la povertà), una crescita senza precedenti. Gente che chiede una cosa semplice: che questa crescita si traduca in un nuovo (e vero) benessere: in più educazione, servizi più efficienti, in una vita davvero migliore (i più sofisticati dicono in un ‘diverso modello di sviluppo’), e non soltanto in tronfie esibizioni di potenza sportiva che si vanno consumando all’interno di stadi inutilmente faraonici. ‘Copa para quem?’, coppa per chi?, si chiama uno dei movimenti sorti in queste ore a ridosso delle proteste e delle repressioni.
Una domanda elementare e difficile. O meglio: ‘la’ domanda. Quella alla quale – se davvero, come dice, sta ascoltando – Dilma dovrà dare una risposta.
Massimo Cavallini
Giornalista
Mondo - 19 Giugno 2013
Cosa sta accadendo in Brasile?
E tuttavia vale forse la pena analizzare la protesta brasiliana – la prima di consistenti dimensioni dal 1984, quando il movimento ‘Diretas Ja’ portò milioni di persone in piazza contro la dittatura militare – partendo proprio dalle analogie (poche, ma interessanti) e dalle differenze (moltissime e profonde) che legano i due eventi.
Le analogie (due, fondamentalmente), tanto per cominciare. Il Messico del ’68 era, come il Brasile di questi giorni, un paese in piena espansione. E come il Brasile d’oggi – impegnato nella Confederation Cup e pronto a lanciarsi verso lo storico ‘doblete’ del Mondiale di calcio (2014) e delle Olimpiadi (2016) – bussava orgogliosamente alle porte del primo mondo organizzando grandi manifestazioni sportive. Tanto nel Messico d’allora, quanto nel Brasile di oggi, a protestare non erano i poveri ed i diseredati (come sarebbe avvenuto nel 1989 durante ‘Caracazo’ venezuelano, o come, sia pure in forma meno netta, accadde nei giorni del ‘Que se vayan todos’, nell’Argentina del 2001), ma i giovani di una emergente classe media. Di fatto: proprio coloro che più avevano beneficiato dell’espansione economica o, se si preferisce, i figli del ‘boom’.
In Messico – e qui cominciano le differenze – al centro delle richieste del movimento studentesco c’era una richiesta di democrazia, l’esigenza d’uscire dalle strettoie d’un regime dominato da un partito-Stato (il Partido Revolucionario Institucional) che sovrastava un pluralismo di facciata (o una “dittatura perfetta” come la chiamò Mario Vargas Llosa). In Brasile – nel Brasile nato dalla lotta alla dittatura militare, passato indenne attraverso la crisi del debito, l’impeachment di Collor de Mello e, quindi forgiatosi negli anni di Fernando Henrique Cardoso prima, e di Lula da Silva poi – vige invece una democrazia, forte, piena.
In Messico l’espansione della fine degli anni ‘60 – e più ancora quella degli anni ’70, nel pieno del boom petrolifero – non era che un’illusione, il preludio della crisi del debito, del ‘default’ del 1982, degli ‘ajustes’ neoliberali e di quella che, in tutta l’America Latina, sarebbe poi passata agli archivi come ‘la decada perdida’.
L’ascesa del Brasile è, invece, parte essenziale di un’inarrestabile trasformazione dell’economia globale, quella marcata dalla crescita di nuovi e tutt’altro che effimeri protagonisti (i cosiddetti BRICS, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). In Messico Díaz Ordaz ed il suo segretario de gubernación (quel Luís Echeverria che sarebbe poi diventato presidente) uccisero – e non solo in senso metaforico – il movimento.
Dilma Rousseff ha invece promesso – e non c’è ragione per non crederle – di ‘ascoltare la voce della piazza’.
In Messico il movimento che portò alla Piazza delle Tre Culture era parte d’un sussulto planetario – dal maggio Parigino, alla primavera di Praga – che, sospinto da eventi di storica portata (il Vietnam, la fine del colonialismo, la Guerra Fredda) si nutriva, ovunque, di grandi ideali. Quello che colpisce, nel caso del Brasile di queste ore è, invece, proprio l’infima – tanto infima e ‘deideologizzata’, in effetti, che si stenta a cogliere la relazione tra causa ed effetto – origine delle manifestazioni e dei disordini.
Tutto è cominciato a causa dell’aumento dei prezzi dei trasporti pubblici a Sao Paulo: da 3,00 a 3,20 reali. Come dire: da 1,60 euro a 1,85 euro. Ed a capo delle manifestazioni che sono seguite non c’era alcuna grande organizzazione di massa – un partito, o un sindacato, come quello dei metallurgici di Sao Paulo che, negli anni ’80 vide l’emergere del dirigente operaio Luiz Inácio Lula da Silva – ma un movimento fino a ieri semi-sconosciuto: ‘Passe Livre’ (biglietto gratis). Una cosa del tutto analoga – e, in questo caso si tratta di una analogia che conta – era accaduto nel 2006 in Cile, quando, proprio per protestare contro le inefficienze del Transantiago, il sistema di trasporti pubblici di Santiago, gli studenti scesero in piazza dando vita ad un movimento che è ancor oggi uno dei protagonisti della vita politica cilena.
Il grande paradosso del caso brasiliano è, in fondo, proprio questo. La gente che scende in piazza non perché sta peggio ma perché sta meglio di ieri. E questa è anche l’essenziale differenza che – accanto a molte e più superficiali similitudini – divide gli ‘indignados’ di Sao Paulo e di Rio, da quelli di Madrid, di Roma o di Atene. Più esattamente: a Sao Paulo, a Rio e a Belo Horizonte quelli che protestano sono i figli d’una classe media che, in questi anni ha conosciuto, in pressoché tutti i paesi latinoamericani (quasi tutti sospinti dall’auge dei prezzi delle materie prime e, quasi tutti, capaci di conseguire eccellenti risultati nella lotta contro la povertà), una crescita senza precedenti. Gente che chiede una cosa semplice: che questa crescita si traduca in un nuovo (e vero) benessere: in più educazione, servizi più efficienti, in una vita davvero migliore (i più sofisticati dicono in un ‘diverso modello di sviluppo’), e non soltanto in tronfie esibizioni di potenza sportiva che si vanno consumando all’interno di stadi inutilmente faraonici. ‘Copa para quem?’, coppa per chi?, si chiama uno dei movimenti sorti in queste ore a ridosso delle proteste e delle repressioni.
Una domanda elementare e difficile. O meglio: ‘la’ domanda. Quella alla quale – se davvero, come dice, sta ascoltando – Dilma dovrà dare una risposta.
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Kiev, 17 mar. (Adnkronos) - Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha annunciato su X di aver parlato con il presidente francese Emmanuel Macron: "Come sempre scrive - è stata una conversazione molto costruttiva. Abbiamo discusso i risultati dell'incontro online dei leader svoltosi sabato. La coalizione di paesi disposti a collaborare con noi per realizzare una pace giusta e duratura sta crescendo. Questo è molto importante".
"L'Ucraina è pronta per un cessate il fuoco incondizionato di 30 giorni - ha ribadito Zelensky - Tuttavia, per la sua attuazione, la Russia deve smettere di porre condizioni. Ne abbiamo parlato anche con il Presidente Macron. Inoltre, abbiamo parlato del lavoro dei nostri team nel formulare chiare garanzie di sicurezza. La posizione della Francia su questa questione è molto specifica e la sosteniamo pienamente. Continuiamo a lavorare e a coordinare i prossimi passi e contatti con i nostri partner. Grazie per tutti gli sforzi fatti per raggiungere la pace il prima possibile".
Washington, 17 mar. (Adnkronos) - il presidente americano Donald Trump ha dichiarato ai giornalisti che il leader cinese Xi Jinping visiterà presto Washington, a causa delle crescenti tensioni commerciali tra le due maggiori economie mondiali. Lo riporta Newsweek. "Xi e i suoi alti funzionari" arriveranno in un "futuro non troppo lontano", ha affermato Trump.
Washington, 17 mar. (Adnkronos) - Secondo quanto riferito su X dal giornalista del The Economist, Shashank Joshi, l'amministrazione Trump starebbe valutando la possibilità di riconoscere la Crimea ucraina come parte del territorio russo, nell'ambito di un possibile accordo per porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina.
"Secondo due persone a conoscenza della questione, l'amministrazione Trump sta valutando di riconoscere la regione ucraina della Crimea come territorio russo come parte di un eventuale accordo futuro per porre fine alla guerra di Mosca contro Kiev", si legge nel post del giornalista.
Tel Aviv, 17 mar. (Adnkronos) - Secondo un sondaggio della televisione israeliana Channel 12, il 46% degli israeliani non è favorevole al licenziamento del capo dello Shin Bet, Ronen Bar, da parte del primo ministro Benjamin Netanyahu, rispetto al 31% che sostiene la sua rimozione. Il risultato contrasta con il 64% che, in un sondaggio di due settimane fa, sosteneva che Bar avrebbe dovuto dimettersi, e con il 18% che sosteneva il contrario.
Tel Aviv, 17 mar. (Adnkronos) - Il ministero della Salute libanese ha dichiarato che almeno sette persone sono state uccise e 52 ferite negli scontri scoppiati la scorsa notte al confine con la Siria. "Gli sviluppi degli ultimi due giorni al confine tra Libano e Siria hanno portato alla morte di sette cittadini e al ferimento di altri 52", ha affermato l'unità di emergenza del ministero della Salute.
Beirut, 17 mar. (Adnkronos/Afp) - Hamas si starebbe preparando per un nuovo raid, come quello del 7 ottobre 2023, penetrando ancora una volta in Israele. Lo sostiene l'israeliano Channel 12, in un rapporto senza fonti che sarebbe stato approvato per la pubblicazione dalla censura militare. Il rapporto afferma inoltre che Israele ha riscontrato un “forte aumento” negli sforzi di Hamas per portare a termine attacchi contro i kibbutz e le comunità al confine con Gaza e contro le truppe dell’Idf di stanza all’interno di Gaza.
Cita inoltre il ministro della Difesa Israel Katz, che ha detto di recente ai residenti delle comunità vicine a Gaza: "Hamas ha subito un duro colpo, ma non è stato sconfitto. Ci sono sforzi in corso per la sua ripresa. Hamas si sta costantemente preparando a effettuare un nuovo raid in Israele, simile al 7 ottobre". Il servizio televisivo arriva un giorno dopo che il parlamentare dell'opposizione Gadi Eisenkot, ex capo delle Idf, e altri legislatori dell'opposizione avevano lanciato l'allarme su una preoccupante recrudescenza dei gruppi terroristici di Gaza.
"Negli ultimi giorni, siamo stati informati che il potere militare di Hamas e della Jihad islamica palestinese è stato ripristinato, al punto che Hamas ha oltre 25.000 terroristi armati, mentre la Jihad ne ha oltre 5.000", hanno scritto i parlamentari, tutti membri del Comitato per gli affari esteri e la difesa.
Tel Aviv, 17 mar. (Adnkronos/Afp) - L'attacco israeliano nei pressi della città di Daraa, nel sud della Siria, ha ucciso due persone. Lo ha riferito l'agenzia di stampa statale siriana Sana.
"Due civili sono morti e altri 19 sono rimasti feriti in attacchi aerei israeliani alla periferia della città di Daraa", ha affermato l'agenzia di stampa, mentre l'esercito israeliano ha affermato di aver preso di mira "centri di comando e siti militari appartenenti al vecchio regime siriano".