“Alessia ha soltanto tredici mesi. E’ pugnace, energica, volitiva, sa quello che vuole e lo vuole subito. E’ testarda, tenace, paziente, fiera e dignitosa. Ha scarse debolezze, reclama autonomia, se le si aprisse la porta di casa lei andrebbe alla ventura senza incertezze, salvo cercare ogni tanto conforto alle sue stanchezze in braccia amorevoli. Quale mai massiccia operazione repressiva sarà necessaria perché da un simile individuo straripante di vitalità, traboccante di entusiasmo e di amore per la vita, esca fuori una donnetta disposta a stare rinchiusa tra le pareti della sua opprimente casetta, intenta ad applicare le sue energie strabocchevoli a misere ossessive faccende domestiche? Ammesso che ce lo si proponga, quanta tenacia, quanti sforzi, quanta perseveranza e quanta ostilità saranno necessari per ridurre un essere così ricco nel rigido busto che ha le fattezze della femminilità”?
Siamo nel 1975, Elena Gianini Belotti dava alle stampe il primo testo chiave del femminismo italiano: Dalla parte delle bambine (il cui sottotitolo, meno famoso ma altrettanto importante, è L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita).
Ho imparato la frase a memoria, avendola letta e riletta durante le formazioni a scuola, nei gruppi e nelle università, e tutte le volte che la condivido mi rendo conto di come le domande che Belotti poneva allora, dopo la lunga ricerca che la portò all’importante pubblicazione, sono ancora interrogativi attualissimi e inquietanti.
Se è vero che si nasce femmina e maschio, altrettanto vero è che questa diversità biologica viene instradata su binari precisi a seconda dell’educazione impartita fin dalla primissima infanzia: rosa/azzurro, bambola/camion, danza/calcio, classico/scientifico, dando per scontato che a femminilità e maschilità corrispondano ruoli precisi e destini biologicamente predefiniti e immutabili.
Nel tenero e istruttivo documentario Il cielo è sempre più blu di Alessandra Ghimenti una bambina dice di essere contenta di essere nata femmina, ma dice anche di aver paura del parto. Ha solo 10 anni, eppure ha già interiorizzato che l’essere donna prevede la maternità, e per come fin qui ha sentito gli adulti parlarne teme l’evento, dando per scontato che sia un obbligo per lei, un destino ineluttabile legato al suo genere.
In Francia il dibattito culturale sugli stereotipi sessisti viene preso molto sul serio, tanto che il ministro dell’Istruzione Vincent Peillon e la ministra dei Diritti delle donne Najat Vallaud Belkacem hanno ideato il programma scolastico contro il sessismo, Abcd de l’égalité, che dal prossimo settembre sarà esteso a 500 istituti scolastici del primo ciclo; un esperimento che vuole provare a ridurre l’impatto negativo sulla formazione del concetto individuale di maschilità e femminilità a partire dal linguaggio, dai giocattoli, dalle attività fisiche.
Il principio che sta alla base di questa proposta è che gli stereotipi siano culturali, e non naturali: la ministra ha infatti detto “Il mio scopo è lottare contro le disuguaglianze profonde che resistono nella società francese, e per fare questo bisogna agire sin dai primi anni di vita. Dobbiamo evitare che i bambini interiorizzino la disuguaglianza come un fatto evidente. Non è così”.
Una affermazione che ha già scatenato polemiche, visto che alcuni esponenti del partito di opposizione Ump (che sostenne Sarkozy) hanno accusato il progetto di “andare all’assalto della famiglia”.
E’ interessante ciò che si muove quando si prova a obiettare sulla granitica certezza circa i ruoli sessuali: i paladini della famiglia e dei valori dell’educazione per bene, che di recente hanno sfilato per le strade della capitale francese in difesa della famiglia eterossessuale contro l’estensione dei diritti anche alle coppie gay sono gli stessi che dettero, in un fuori onda tv della campagna elettorale del 2007, della ‘salope’, (una variante di putain, puttana, ma lievemente più forbita) ad Anne-Marie Comparini, deputata centrista battuta nelle elezioni. Nel video che li inchiodò l’ex premier e un altro collega li ritrae belli tronfi, gran pacche sulle spalle, quel tipico atteggiamento fisico che indica, con un linguaggio del corpo prima ancora che con le parole, che si è consapevoli del dominio che si esercita: Dio, la Patria e l’essere possessori di un pene ci rende ciò che siamo. Dei vincitori sul sesso debole, sempre e comunque, solo perché maschi.
Un atteggiamento culturale, quindi, costruito da secoli di educazione e realizzazione del dover essere, in questo caso del maschile: dal momento che i danni del modello correnti sono evidenti, perché non provare a destrutturare gli stereotipi educando alla possibilità di essere donne e uomini con meno gabbie sessiste da portare addosso?
Non si aspettano miracoli dal progetto educativo francese, perché ci vuole tempo, e molto lavoro, sulle persone adulte in primo luogo e poi sulle giovani generazioni affinché la mentalità, il linguaggio e la pratica quotidiana nelle relazioni tra i generi evolva in una direzione non sessista, paritaria e nonviolenta. Ma iniziare a farne anche una questione di come ci si esprime, come si gioca, come si vestono bambine e bambini è un buon inizio.