Temuta. Sperata. Combattuta. Voluta con forza. Dopo anni di battaglia politica e sociale, la riforma dell’immigrazione – la “più importante da generazioni”, come è stato detto – è passata al Senato degli Stati Uniti. Il voto finale, 68 contro 32, con 14 senatori repubblicani che si sono uniti ai democratici, mostra un consenso che va al di là delle tradizionali contrapposizioni partitiche. La riforma garantisce un percorso verso la cittadinanza per 11 milioni di immigrati, ma al tempo stesso costa decine di miliardi di dollari in nuovi controlli alle frontiere. Ora la palla passa alla Camera, dove molti repubblicani promettono battaglia per far deragliare la riforma, che a loro giudizio equivale a una esplicita “amnistia”.

La giornata vissuta al Senato è stata in qualche modo storica. La “Gang of Eight”, il gruppo di quattro senatori democratici e quattro repubblicani che per mesi hanno lavorato alle 1200 pagine della legge, erano certi della vittoria, ma non sapevano quanto questa sarebbe stata larga. A testimoniare il carattere particolare del voto è arrivata anche la presenza del vice-presidente Joe Biden, che si è seduto sullo scranno della presidenza e ha proclamato il risultato finale. Ogni senatore ha votato dal suo banco – anche questo un fatto piuttosto insolito -, levandosi in piedi al momento del sì o del no. All’annuncio del risultato, c’è stato un lungo momento di silenzio, con tutti i senatori ancora ai loro posti. Biden ha immediatamente bloccato un tentativo timido di applauso, ma dalle gallerie del Senato, colme di gente, è partito un coro, sempre più deciso: “Yes, We Can”. A scandirlo erano decine di ragazzi con magliette blu e la scritta “11 Millions Dream”: molti figli di immigrati, arrivati a Washington per celebrare la vittoria. 

La nuova legge prevede un percorso di 13 anni per ottenere la cittadinanza. Gli immigrati senza documenti dovranno dimostrare di non aver compiuto crimini gravi negli Stati Uniti e pagare una multa e tutte le tasse dovute nel passato. Dopo 10 anni potranno fare domanda per la green card, lo status di residente permanente; dopo altri 3 anni, e la dimostrazione di conoscere l’inglese e i fondamenti della storia americana, dovrebbe arrivare finalmente la cittadinanza. Preliminare a qualsiasi forma di legalizzazione sarà comunque un giro di vite alle frontiere che ha pochi uguali nella storia americana più recente. Trenta miliardi di dollari verranno spesi per raddoppiare il numero degli agenti di frontiera Usa – diverranno circa 40 mila – e per costruire 700 miglia di recinzioni al confine col Messico. Il governo federale utilizzerà tecnologia militare – tra le altre cose, radar e droni – per controllare le frontiere e bloccare eventuali nuovi passaggi di illegali. Il Department of Homeland Security doterà aeroporti e posti di frontiera di sistemi di riconoscimento biometrico per identificare coloro che sono rimasti negli Stati Uniti oltre la scadenza del visto.

La durezza delle nuove misure di sicurezza è stata il prezzo che i democratici hanno dovuto pagare per ottenere il voto dei repubblicani. Altra concessione fatta dal partito di Obama riguarda i consorti omosessuali. I democratici avrebbero voluto includere nei benefici anche i partner dello stesso sesso, ma i repubblicani sono stati da subito molto chiari. Ogni riferimento nella legge a gay e lesbiche avrebbe mandato all’aria tutto. Per il resto la legge è il frutto di una serie di estenuanti contrattazioni che hanno coinvolto una coalizione composita di gruppi e interessi: democratici e repubblicani, ma anche il grande business, i sindacati, gli agricoltori, le associazioni pro-immigrati. Un’intesa tra Camera di Commercio Usa e l’A.F.L.-C.I.O., la principale confederazione sindacale americana, ha portato all’inclusione nella legge di un programma che allargherà o restringerà il numero dei lavoratori ospiti non specializzati – con un massimo di 200 mila visti annuali. Viene incontro alle esigenze del mondo degli affari anche la misura fortemente sponsorizzata dal repubblicano Orrin Hatch, che alza il numero dei permessi di lavoro per gli stranieri nel settore dell’high-tech.

La legge – suggellata da un patto tra i democratici Schumer, Durbin, Menendez e Bennet e i repubblicani McCain, Graham, Rubio e Flake – lascia ovviamente molti insoddisfatti. Alcuni repubblicani avrebbero desiderato misure di controllo alle frontiere ancora più severe. Protestano i gruppi omosessuali, lasciati fuori dall’accordo. E storcono il naso molti militanti pro-immigrati, che lamentano l’iter lunghissimo per la cittadinanza – 13 anni, un tempo smisurato, se si pensa che la riforma firmata da Ronald Reagan nel 1986 permetteva di far domanda per la green card dopo un periodo di appena 18 mesi dalla legalizzazione -. I militanti fanno anche notare che l’amministrazione Obama, prima di far partire l’eventuale piano di regolarizzazione, ha messo in atto una delle più radicali operazioni di repressione poliziesca della storia americana: 400 mila immigrati deportati nel solo 2012. Ma questa intesa è appunto un compromesso, a lungo cercato, più volte rivisto; frutto della necessità, per i democratici, di ripagare in qualche modo la comunità ispanica dell’appoggio ricevuto alle presidenziali 2012: e del bisogno, per i repubblicani, di riconquistare queste fasce di elettorato in vista del prossimo voto. L’intesa prende ora la strada della Camera, dove dovrà affrontare uno scrutinio ben più severo, quello dei repubblicani conservatori, che giudicano il bill troppo tenero con gli irregolari e promettono di farlo morire tra i corridoi e le stanze delle varie Commissioni. “On to the House”, come dire avanti così anche alla Camera, Barack Obama su Twitter.

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