Luigi Pirandello ci ha dato una delle più celebri e precise definizioni di cosa sia l’umorismo e di come si distingua dal comico. Nel suo fin troppo noto saggio omonimo, il drammaturgo intende l’umorismo come “il sentimento del contrario”, la riflessione che facciamo spontaneamente subito dopo la fase comica e che conduce a un sentimento di compassione e identificazione nei confronti del personaggio di cui si legge.
L’ottima collega Silvia Bencivelli, una delle più affermate giornaliste freelance scientifiche italiane, col suo instant book autobiografico Cosa intendi per domenica? (LiberAria Editrice, 2013, 10 Euro, 126 pp.) ha fatto tesoro di quella celebre lezione pirandelliana e ha messo insieme in poche pagine un piccolo capolavoro della saggistica contemporanea sullo stato umoristico del lavoro autonomo per eccellenza: il giornalismo freelance.
Bencivelli (laurea in Medicina alla Normale di Pisa e master in Comunicazione della scienza alla SISSA di Trieste, e scusate se è poco), in queste sue pagine lucide e a tratti filosofiche, ha vivisezionato se stessa e il suo stile di vita professionale e umano, raccontandosi attraverso la chiave dell’umorismo, a tratti dell’umorismo nero. Perché per fare la giornalista freelance in Italia oggi occorre davvero un senso dell’autoironia encomiabile. L’immagine che uso di solito io è quella della maratona a ostacoli: i primi si saltano con un certo slancio e la fierezza dipinta in volto, ma man mano che si procede verso il traguardo e si macinano chilometri (e che, nella mia metafora, si diventa vecchi) ci si rende conto che quello stile di vita non può fare per te fino alla fine.
Come ricorda l’autrice, chi è giornalista freelance tanto più guadagna quanto più lavora; non esistendo ammortizzatori sociali che consentano al freelance una pausa salariata, ecco che la semplice idea di una gravidanza è paragonata dalla Bencivelli a una delle poche “exit strategy” (strategie d’uscita) dal mercato del giornalismo freelance. La prima, ci spiega serafica l’autrice, è però “il decesso” (121), che tutto sommato non è così male perché si potrebbe dipartire e magari vedere il proprio nome intestato a una biblioteca a imperitura memoria. Il grande difetto di questa strategia è che è un po’ troppo definitiva, sotto vari punti di vista. La seconda “exit strategy” è, appunto, “la gravidanza“, che però, riflette Bencivelli, ha il problema opposto: “Dura troppo poco, solo nove mesi.” (121) La terza è la “fuga all’estero” che però è complicata per chi lavora con le parole. Ecco perché l’autrice ammette la sua dipendenza dal lavoro indipendente. Bisogna lavorare sempre (da qui il titolo del saggio) e, allo stesso tempo, vivere nella performance, anzi, diventare performance, anche un po’ schizoide.
La giornalista freelance deve essere non solo l’organizzatrice del suo tempo, ma anche del suo recupero crediti, della sua partita IVA, della sua fatturazione, di nuovo del suo recupero crediti, dell’acquisto dei suoi biglietti del treno, delle sue prenotazioni alberghiere, della definizione dei suoi incontri professionali, e – l’ho detto? – del suo recupero crediti. Ma, sopra ogni altra cosa, la freelance è colei che difende l’elementare concetto che il lavoro culturale non è un lavoro gratuito. A doverlo rivelare in un libro o in una recensione, a doverlo scrivere, a doverlo ribadire nel XXI secolo, ci si sente come dei goffi aiutanti fuori tempo di Karl Marx.
Eppure, la società intorno ai giornalisti freelance, fatta di editori, redazioni di giornali, caporedattori spesso ultra-garantiti, fa finta di non capirti e continua a ripeterti che il tuo lavoro può essere perfettamente pagato con modalità che possiamo definire post-dadaistiche: in visibilità, in libri, in fama, in opportunità future, in considerazione, un domani.
Bencivelli sul punto è categorica: lavorare gratuitamente non si fa. E spiega l’ovvietà con un semplice ragionamento aritmetico, capito perfino dal vostro recensore: “Un editore poco interessato alla qualità di quel che pubblica, tra un lavoratore bravo che costa X e uno medio che costa X/2, preferirà quest’ultimo. E il costo di quel servizio sarà fissato a X/2, così come, probabilmente, la sua qualità. […] Se poi ci sarà uno stagista con esperienza (figura professionale sempre più diffusa, corrispondente a un lavoratore intorno ai 28 anni plurititolato e ricco di famiglia) che accetterà di farlo gratis, il valore di quella roba diventa zero. Il primo lavoratore e il secondo si troveranno disoccupati e soprattutto vedranno il loro lavoro svalutarsi fino allo zero […] E il pubblico avrà un servizio di qualità più bassa.” (100). Ragionamento inappuntabile, che spiega alla perfezione il motivo per cui il vostro recensore ha svolto il lavoro di giornalista freelance solo fino al 2006, e poi ha adottato la strategia della fuga all’estero, cambiando inevitabilmente professione.