Nuove accuse contro George Zimmerman, fondate sulla violazione dei diritti civili di Trayvon Martin, il 17enne afro-americano ucciso dal vigilante a Sanford la sera del 26 febbraio 2012. Potrebbe essere questo l’escamotage scelto dal Dipartimento alla Giustizia per non lasciare impunito l’assassinio del giovane. Un portavoce del Dipartimento ha annunciato che “pubblici ministeri federali di grande esperienza stanno valutando se le prove a nostra disposizione rivelano una qualche violazione delle leggi sui diritti civili”. Il 16 luglio proprio l’Attorney general Eric Holder sarà a Orlando, in Florida, in un’area vicina a quella dove si è verificato l’omicidio, per parlare alla riunione annuale della Naacp (“National association for the advancement of colored People”, la maggiore organizzazione di afro-americani degli Stati Uniti) ed è certo che il caso sarà parte del suo intervento. E mentre cortei e proteste si allargano in tutto il Paese, la morte di Trayvon Martin è l’occasione per il riemergere dei fantasmi più antichi, dolorosi e negati della storia americana: quelli del pregiudizio razziale.
La possibilità che Zimmerman possa essere riportato in un tribunale americano per civil rights charges è stata nelle scorse ore apertamente ventilata proprio da Benjamin Jealous, il presidente della Naacp, secondo cui “quando si valutano i commenti di Zimmerman e le testimonianze dei giovani neri che vivono nel quartiere, c’è ragione di credere che l’appartenenza razziale sia stata una ragione che ha portato Zimmerman a tormentare Martin”. L’accusa di violazione dei diritti civili per la legge americana si verifica quando una persona viene esplicitamente presa di mira per la sua appartenenza etnica, razziale e di genere. Nel caso di Trayvon Martin, secondo Jealous e molti altri, il pregiudizio razziale è facilmente dimostrabile. Ci sono decine di telefonate di Zimmerman al 911, il numero delle emergenze, ogni volta che il vigilante volontario trovava giovani neri in giro per la comunità cintata. Molti tra questi hanno testimoniato di essere stati obiettivo esplicito di minacce e molestie da parte di Zimmerman. Di più. La sera del 26 febbraio, dopo aver avvistato Trayvon Martin incappucciato per le vie di Sanford, Zimmerman telefonò proprio al 911, spiegando di aver avvistato uno di questi “fottuti teppisti... uno di questi stronzi”, che riescono sempre a farla franca.
L’accusa, anzitutto l’avvocato di Stato Angela Corey nominata dal governatore della Florida Rick Scott, ha sin dall’inizio del processo deciso di non scegliere la strada del pregiudizio razziale. Ancora nell’arringa finale, l’accusa ha ripetuto che il racial profiling non era in discussione, ma che chiaro era piuttosto l’intento omicida e malvagio di Zimmerman nel seguire e poi aggredire Martin. Il tentativo è fallito e ora molti, soprattutto all’interno della comunità afro-americana, mettono in discussione la strategia. “E’ stato ovviamente un caso di pregiudizio razziale”, ha spiegato Barbara Arnwine, executive director dello “Lawyers’ committee for civil rights under law”, criticando la scelta dell’accusa al processo contro Zimmerman. L’opinione in queste ore è stata abbracciata da molti altri leader della comunità afro-americana e ha ricevuto un sostegno entusiastico in Rete. Una petizione postata sul sito della Naacp per accusare Zimmerman di violazione dei diritti civili ha ricevuto in poche ore migliaia di adesioni, mandando in tilt lo stesso sito dell’organizzazione.
Si aspetta, a questo punto, la decisione del Dipartimento alla Giustizia, che però non è scontata. L’accusa di “crimine di odio razziale”, dicono fonti del Dipartimento, non è facile da dimostrare, proprio perché si deve risalire alle attitudini mentali e ai sentimenti dell’eventuale aggressore. In questi anni, l’amministrazione Obama ha usato con più frequenza, ma in modo comunque molto prudente, questo tipo di arma. Il mese scorso, a Seattle, Jamie Larson si è dichiarato colpevole dell’accusa di crimine per odio razziale, per aver picchiato un tassista indiano che indossava un turbante. Ma il Dipartimento alla Giustizia si è rifiutato di elevare lo stesso tipo di accusa nel caso di Sean Bell, un 23enne ammazzato dalla polizia fuori da un locale di Queens poche ore prima del suo matrimonio.
Oltre la discussione legale, quello che è in queste ore palpabile nella comunità afro-americana è comunque la rabbia nei confronti della sentenza – emessa da una giuria di sei donne, cinque bianche e una ispanica – e la certezza di essere ancora una volta presi di mira da istituzioni e società americane. “Trayvon Martin è morto perché lui e altri giovani maschi come lui non sono considerati persone, ma solo problemi”, ha detto dal pulpito della Ebenezer baptist Church di Atlanta il reverendo Raphael G. Warnock. In questi giorni è stato più e più volte ripetuto il parallelo storico tra Trayvon Martin ed Emmett Till, il 14enne torturato e brutalmente assassinato nel Mississippi del 1955 soltanto per aver rivolto la parola a una donna bianca. Il fatto che la Corte Suprema, alcune settimane fa, abbia cancellato alcune disposizioni centrali del Voting rigts act – quelle volte a favorire la partecipazione elettorale degli afro-americani – è vista da molti nella comunità nera come la conferma di un trend poco favorevole, di ritorno a un passato di discriminazione. Molti degli afro-americani intervistati durante gli show della domenica hanno detto di essere certi che Zimmerman sarebbe finito in carcere, se la vittima fosse stata bianca, e hanno ripetuto all’infinito lo stesso concetto: quello di un sistema ostile e di una giustizia negata. Proprio Benjamin Jealous, il presidente della Naacp, ha ricordato che l’assassino di Trayvon Martin è libero, mentre Michael Vick, un giocatore nero di football americano, si beccò 23 mesi di carcere per aver partecipato a un giro di scommesse sui cani.