Facile prendersela con il vecchio don Salvatore, ora che sembra davvero finito, dopo tante cadute e tante resurrezioni. L’hanno abbandonato tutti. Dove sono, oggi, quelli che l’hanno creato, usato e sostenuto per almeno tre decenni? Alcuni sono usciti di scena, altri no. Senza i suoi molti e potenti amici nella politica e nella finanza, da Bettino Craxi a Silvio Berlusconi, da Enrico Cuccia a Cesare Geronzi, Salvatore Ligresti non sarebbe mai diventato Salvatore Ligresti.
Mediobanca lo ha scaricato, certo: ma dopo averlo nutrito, dal 2003 al 2012, con l’incredibile cifra di 1 miliardo e 200 milioni per sostenere Fonsai. Unicredit ha chiuso i rubinetti, d’accordo: ma dopo aver assistito ai magheggi con cui gestiva le società a monte di Fonsai, Imco e Sinergia.
Viene da lontano, don Totò. Arriva a Milano sul finire degli anni Cinquanta, senza un soldo, con una laurea in ingegneria presa a Padova e un gran fiuto per gli affari. Nato il 13 marzo 1932 a Paternò , in provincia di Catania, a Milano impara il mestiere da due compaesani diventati molto potenti: Michelangelo Virgillito, grande manovratore di Borsa nell’Italia del boom, e Antonino La Russa, senatore missino e padre di un Ignazio destinato a far carriera. Finanza e politica. E soprattutto buone relazioni. Da Michele Sindona rileva la Richard-Ginori, ricca di aree industriali da dismettere e valorizzare. Da Raffaele Ursini, l’uomo che riceve da Virgillito il gruppo Liquigas, eredita il primo pacchetto di Sai.
Zitto zitto, Ligresti diventa uno degli uomini più ricchi d’Italia, entra nelle classifiche di Forbes e Fortune. Il suo campo è il mattone: compra a due lire aree agricole che poi la bacchetta magica di sindaci e assessori trasforma in preziose aree edificabili. Costruisce. Edifica le sue torri ai quattro punti cardinali di Milano. Per riuscire a entrare nei giri che contano, compra piccole quote di società importanti, la Pirelli, l’Italmobiliare di Pesenti, l’Agricola Finanziaria di Gardini, la Cir di De Benedetti. Qualcuno comincia a chiamarlo “Mister 5 per cento”.
Eppure don Salvatore fino alla metà degli anni Ottanta resta un oggetto misterioso, sconosciuto ai più. Diventa sui giornali il “re del Mattone”, il “padrone di Milano”, solo nel 1986, quando scoppia lo “scandalo delle aree d’oro” e si scopre che la giunta – sindaco Carlo Tognoli, Psi, assessore all’urbanistica Maurizio Mottini, Pci – ha spostato proprio sui suoi terreni il Piano casa, una variante di piano che cementifica il sud della città. E che la capo-ripartizione dell’Edilizia privata Maria Grazia Curletti (Pci) era spesso ospite dei suoi hotel.
Si dimette la giunta Tognoli e don Salvatore cade la prima volta. Per lo stillicidio di piccole condanne per abusi edilizi e, soprattutto, per la crisi di mercato: i suoi palazzi non si vendono, gli uffici restano vuoti. È il fallimento del modello “Milano da bere” di Craxi e Tognoli. L’indebitamento finanziario netto di Ligresti supera i 1.150 miliardi di lire, una dozzina di volte il patrimonio. Per uno senza santi in paradiso sarebbe il crac. Ligresti invece si salva.
Nerio Nesi, allora presidente della Bnl, racconta di aver ricevuto nel 1987 direttamente da Craxi l’ordine di concedergli un grosso finanziamento. Dopo aver incassato un rifiuto, Bettino s’infuria: “Devi ancora imparare come si fa il banchiere!”. Ma poi è nientemeno che Enrico Cuccia a correre in aiuto di don Salvatore, inventando un salvataggio da brivido. Il presidente di Mediobanca nel 1989 impone la quotazione in Borsa della holding di Ligresti, la Premafin, chiedendo al mercato di sborsare i soldi necessari. Decide una valutazione di oltre 1.000 miliardi, 14 volte gli utili (eccezionali: 72 miliardi) di un anno che non si ripeterà mai più.
Perché Cuccia ha fatto questo per don Salvatore? Perché era stato Ligresti ad accompagnare Craxi negli uffici di Mediobanca, stabilendo il primo contatto tra il leader socialista e Cuccia, utile per avviare, nel 1984, la privatizzazione di Mediobanca sotto la regia dello stesso Cuccia. Così si salva Ligresti, che risorge per la prima volta ed entra come alleato fedele e silenzioso nell’orbita di Mediobanca. Cade la seconda volta sul Golgota di Mani pulite. In un altro luglio fatale, quello del 1992, viene arrestato con l’accusa di aver comprato a suon di tangenti gli appalti della metropolitana milanese.
Nel 1993, nuova imputazione: mazzette per far gestire alla Sai tutti i contratti assicurativi dell’Eni. “Facci il nome, facci quel nome, mi ripetevano, e mi facevano una x con le dita”. Così racconta in seguito agli amici don Salvatore, ricordando i lunghi mesi di galera. “Ma io quel nome non l’ho fatto”. Il nome era quello di Craxi. I magistrati pensano che sia di Ligresti anche la misteriosa società estera All Iberian da cui era partita per Bettino la più grande tangente (21 miliardi di lire) mai pagata a un singolo uomo politico. Si sbagliavano: era di un suo concorrente, passato dal mattone alla tv: Silvio Berlusconi. Un concorrente che diventerà, da politico, amico e protettore.
Da Mani pulite, Ligresti esce con qualche condanna e la sospensione dei “requisiti di onorabilità” necessari per guidare le compagnie d’assicurazione. Ma si rialza ancora. Nel 2002 s’impossessa di Fondiaria, la compagnia assicurativa fiorentina. La regia dell’operazione (e i soldi) sono della Mediobanca di Vincenzo Maranghi, che voleva sgambettare la Fiat. Ma ormai don Salvatore, fedele e silenzioso come sempre, si è messo nelle mani d’un altro banchiere, Cesare Geronzi. A mediare il rapporto con lui è Massimo Pini, passato da Craxi ad An in nome dell’interventismo della politica in economia. Quando Geronzi entra in Mediobanca e decide di far fuori Maranghi, la riunione cruciale avviene nella casa di Ligresti a San Siro. Poi anche Geronzi dovrà farsi da parte, spinto fuori dal nuovo patron di Mediobanca, Alberto Nagel, che per qualche anno sosterrà ancora Ligresti, fino al tramonto: troppi debiti, troppi trucchi. Ormai la parola è passata ai magistrati.
il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2013