Detroit non ce l’ha fatta. Dopo mesi di polemiche, discussioni, timori, dopo la nomina di un commissario straordinario che avrebbe dovuto gestire l’emergenza, la culla dell’auto americana ha dovuto dichiarare bancarotta. Un debito da 18 miliardi di dollari, ha confermato il commissario Kevyn Orr, lasciando intendere che il buco potrebbe arrivare a 20 miliardi. “E’ un passo difficile da fare, ma è la sola opzione possibile”, ha spiegato il governatore del Michigan Rick Snyder, che ha autorizzato ufficialmente la richiesta di fallimento. Si tratta della maggiore città americana a far bancarotta nella storia degli Stati Uniti. Tra le prime conseguenze, ci sarà il taglio di salari e pensioni per migliaia di dipendenti pubblici.
Non è dunque riuscito il tentativo di Orr, un avvocato 54enne esperto in fallimenti, che lo scorso marzo era stato nominato da Snyder per un ultimo disperato tentativo di salvare le finanze della città. A Orr era stata data mano libera, con la possibilità di tagliare le spese, vendere i beni cittadini, rinegoziare gli stipendi dei dipendenti pubblici, sospendere gli emolumenti del sindaco e dei consiglieri comunali. Orr avrebbe dovuto recuperare 15 milioni di dollari al mese, per un periodo di 18 mesi (la durata del suo incarico). La rinuncia è venuta molto prima, sotto il peso di una crisi che nessun taglio avrebbe potuto raddrizzare. Tra le ragioni che hanno portato al punto di non ritorno, gli analisti citano ora una forte riduzione degli introiti fiscali, che non sono stati più in grado di finanziare i costi massicci di una città di quasi 140 miglia quadrate; le spese sempre maggiori per pensioni e sanità; ripetuti tentativi di far fronte alla voragine dei conti pubblici con i prestiti delle banche.
La bancarotta di Detroit era largamente attesa. Polo di uno straordinario sviluppo economico nella prima metà del Novecento, con l’ascesa dell’industria dell’automobile, la città del Michigan aveva iniziato negli ultimi decenni un declino altrettanto rapido. Detroit aveva un milione e 800mila abitanti nel 1950. Oggi ne ha 700mila, che vivono in uno dei paesaggi urbani più difficili d’America, schiacciato da tensioni razziali e povertà, con interi quartieri di palazzi residenziali abbandonati, zone industriali che paiono usciti da una guerra, il 40% delle strade prive di illuminazione e la metà dei parchi cittadini chiusi dal 2008. Non c’è al momento una “road map” certa per gestire la bancarotta. Probabile che, tra i primi passi, ci sarà quello di portare i conti in tribunale, cercando di dimostrare che la situazione finanziaria è fuori controllo e non più gestibile. Una volta ottenuta la bancarotta, inizierà il lavoro meno piacevole: quello di rinegoziare il debito nei confronti di fornitori, dipendenti e pensionati.
Nei giorni scorsi intenso, in alcuni casi anche violento, è stato il dibattito su effetti e benefici della dichiarazione di bancarotta. Alcuni, soprattutto i rappresentanti sindacali dei lavoratori, hanno messo in guardia contro una mossa che rischia di mettere ulteriormente in ginocchio l’economia della città. Bancarotta significa tagli radicali agli stipendi dei dipendenti comunali e alle pensioni di chi ha lavorato nella macchina cittadina. Bancarotta significa minor capacità di accesso ai crediti delle banche e ulteriori tagli ai servizi. Altri, soprattutto il mondo del business e ciò che resta dell’industria di Detroit, hanno interpretato la richiesta di fallimento come “un nuovo inizio”, in grado di portare a una decisa riduzione di costi e carichi finanziari.
Certo è che, nelle prossime settimane, le mosse degli amministratori di Detroit saranno osservate attentamente dai rappresentanti sindacali, dagli operatori del mercato dei bond comunali e dalle altre città che negli Stati Uniti si trovano sotto la minaccia di fallimento. Circa 60 città e contee americane, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, hanno chiesto di accedere al Charter 9 che regola la bancarotta municipale – prima di Detroit, il fallimento di maggiori dimensioni era quello della contea di Jefferson in Alabama, con un buco di 4 miliardi di dollari. Probabile anche che la richiesta di bancarotta approfondisca le già tese relazioni etnico-razziali di Detroit. La città è all’80 per cento abitata da afro-americani, e vota in larga misura democratico. Più volte, nei mesi scorsi, la ventilata minaccia di bancarotta era stata interpretata come un tentativo da parte dell’élite bianca e repubblicana del Michigan di prendere il controllo delle finanze della città.