Il Festival Gaber è finito, senza però terminare davvero. Dopo dieci anni, il tempo passato dalla scomparsa dell’artista milanese (Primo Gennaio 2003), l’appuntamento con le due serate alla Cittadella di Viareggio si ferma. L’ultimo atto, oltremodo simbolico, è coinciso sabato 20 con Lorenzo Luporini a interpretare la paradigmatica Buttare lì qualcosa. Lorenzo è figlio di Dalia Gaberscik, unica erede di Gaber, e Roberto Luporini, nipote di Sandro (il coautore del Teatro Canzone del Signor G). La quadratura del cerchio di un eterno buttar lì qualcosa gaber-luporiniano.
Giorgio Gaber è più attuale che mai, come Pasolini e pochi altri. Ricordarlo porta con sé una doppia fatica, la prima legata al desiderio a volte neanche troppo latente di disinnescarlo e la seconda con la sua presenza scenica irripetibile. Tra spettacoli teatrali, raccolte di cd e special televisivi mai troppo appaganti, la memoria di Gaber rimane incandescente. All’ultima edizione del Festival Gaber ha giovato l’idea dell’evento itinerante: un mese di incontri – tuttora in corso – in sette comuni della Versilia, dal primo al 31 luglio. Le serate di venerdì e sabato scorso alla Cittadella di Viareggio sono state “soltanto” il capitolo più noto. Gli ospiti hanno cantato unicamente brani e monologhi di Gaber, accompagnati dalla band storica che ha accompagnato le tournèe del cantautore milanese. Tra i più applauditi, Paolo Rossi, che ha proposto un adattamento di Qualcuno era comunista. Il monologo, divenuto Qualcuno era del Partito Democratico, è proposto in esclusiva proprio dal Fatto Quotidiano per volere dello stesso artista.
Rossi non è stato l’unico a convincere. Tra gli altri, e soprattutto, Andrea Mirò, Oblivion, Mercedes Martini e un commosso Enzo Iacchetti che ha ammesso: “In questi dieci anni speravamo di trovare l’erede di Gaber. Abbiamo invece avuto conferma della sua irripetibilità”. Il Festival Gaber, negli anni, ha ricevuto critiche dai gaberiani più ortodossi. Appunti giusti e naturali, perché i gaberiani sono cresciuti con un maestro esigente e perché ascoltare Mengoni o Emma straziare Destra/sinistra e La libertà mette oggettivamente malinconia. Il dibattito se Gaber possa essere reso o meno nazionalpopolare, dandolo in pasto anche a chi non gli somiglia pur di allargarne il bacino di pubblico, resterà aperto. Poiché materia viva e pulsante, la sua arte si ribella a interpretazioni posticce e mischiamenti furbetti, come si ribellerebbero gli Scritti corsari pasoliniani se qualcuno pensasse di farli rileggere a Moccia o Boccia.
Giunto al termine del suo percorso, il Festival Gaber ha trovato la sua strada: la diversificazione. Spettacoli, incontri, concerti, dibattiti. Il futuro sarà lì, nell’alto e nel basso. I continui tutti esauriti dimostrano la validità di organizzazione e proposta. Gaber era così sfaccettato da aver precorso i tempi, percorrendo sentieri per altri impossibili. Se non ci sarà più spazio per le due serate-evento, si troverà per gli incontri a Capannori e Camaiore, Seravezza e Massarosa. Al Festival Gaber Jovanotti trovò risorse nascoste, Patti Smith celebrò Io come persona e Ivano Fossati riuscì a salvarsi dalle incursioni di Morgan misurandosi con Un’illogica allegria. E’ sempre stato un luogo strano e più esattamente unico, il Festival Gaber. Così strano che, le bizze, le han sempre fatte più certi giornalisti che molte star. Ci sono passati quasi tutti, anche più volte, tranne De Gregori, Capossela e pochi altri. C’è chi ha applaudito Claudio Baglioni (giustamente), chi si è esaltato per Noemi (meno giustamente) e chi racconterà ai nipotini di aver visto commuoversi quel gran genio schivo di Sandro Luporini. Non è dato sapere se, tutto questo, a Gaber sarebbe piaciuto. Di sicuro, sapendo scorgere negli altri mancanze e ferite, Giorgio avrebbe capito che questi dieci anni di ricordi sono stati anzitutto il desiderio di ovviare a un’assenza. Più che un tributo, un ringraziamento. Qua e là retorico, qua e là stonato, ma perlopiù sincero.