L’articolo di Giuseppe Pipitone è assolutamente puntuale nel descrive lo stato dell’arte antimafiosa in terra di Sicilia e non solo. Lo è altrettanto il richiamo a quanto scritto a suo tempo da Leonardo Sciascia, un tema, quello sollevato da Sciascia, che, nel recente passato, ho più volte richiamato in assoluta solitudine e che adesso finalmente trova attenzione.
Su Rosario Crocetta ho scritto sin dal primo momento quel che penso e su tale personaggio non credo vada sprecato altro inchiostro; l’ultimo suo magistrale ritratto lo si deve alla penna di un collega, quel Pietrangelo Buttafuoco dal quale mi separano culturalmente e politicamente anni luce, ma al quale non posso non riconoscere, oltre alla pregevole prosa, il coraggio di essersi esposto su un terreno dove il meglio che ti può capitare è essere additato al pubblico ludibrio quale fiancheggiatore di Riina e soci.
Il Presidente Crocetta ieri ha comunque superato se stesso chiedendo ai giornalisti di dichiarare da che parte stavano: se con lui o contro di lui, con il sottinteso che chi fosse contro di lui, stava, ovviamente, dalla parte delle cosche. L’idea che i giornalisti non debbano stare da nessuna parte che non sia quella delle notizie e dei lettori, non lo ha minimamente sfiorato. Voleva solo sapere se erano disposti a servirlo. Perché questo per lui sono i giornalisti: servi di qualcuno.
Crocetta ha fatto di più ha annunciato la preparazione di dossier sulle parentele dei giornalisti che non gli vanno a genio. Siccome di certo non sono tra le penne gradite, per conto mio gli risparmio perdite di tempo e gli farò avere l’albero genealogico: mio padre era ispettore capo della Polizia di Stato, mio nonno carabiniere….
Di fronte all’ennesima uscita di questo personaggio starnazzante si potrebbe ridere oppure far spallucce, ma in terra di Sicilia forse è cosa buona ogni tanto mostrare i denti e rimettere le persone al loro posto e dunque bene ha fatto chi ha ricordato al signor Crocetta che otto giornalisti siciliani sono stati ammazzati da Cosa Nostra.
Il tema sollevato da Pipitone e prima dal sottoscritto e recentemente declinato da Davide Faraone e dal collega Accursio Sabella ovvero il richiamo a quanto scritto da Leonardo Sciascia nel gennaio del 1987 invece è di importanza assoluta e riguarda non solo Crocetta, ma numerosi personaggi alcuni decisamente in cerca d’autore: da Ivan Lo Bello, ad Antonelo Montante, da Andrea Vecchio al sempiterno senatore Giuseppe Lumia solo per citarne alcuni. Si tratta di una congrega mediocre che si autosostiene per intessi politici, per ambizione, a volte per mero profitto. Una congregazione che ha creato un vero e proprio sistema di potere, del quale Crocetta altro non è che un modesto ingranaggio. Costoro sono incriticabili, non possono essere avanzati dubbi sui loro affari, sui loro soci, sulle scelte politiche che fanno, sulle nomine che impongono. Chi osa contrastarli viene bollato come sodale della mafia, come è accaduto all’ex presidente di Confindustria a Catania, Fabio Scaccia, che per aver osato criticare Lo Bello è stato fatto a pezzi sulle paludate pagine del Corriere della Sera. Additato come fiancheggiatore dei mafiosi, nonostante non avesse neppure una multa per divieto di sosta.
Quando si contesta la nomina di uno di questi bramini dell’antimafia, sollevando dubbi sulla sua correttezza o sui suoi comportamenti, come è accaduto recentemente, arriva con puntualità svizzera, la busta con il proiettile o la bottiglia di benzina sotto casa del soggetto contestato. E il gioco è fatto. Nessuno ha più il coraggio di aprire bocca. la minaccia di attentato, vera o falsa poco importa, chiude ogni dibattito. Crocetta ad esempio denuncia mediamente ogni sei mesi un progetto di attentato ai suoi danni. Sempre letale e mai, fortunatamente, portato a compimento.
La verità è che questo Paese si amano le Chiese, e le Chiese hanno sempre bisogno di santi e di martiri, poco importa se veri o piuttosto costruiti per l’occasione; in Italia si ama il conformismo, esso è espressione della pigrizia nazionale, dell’oscena vocazione a belare nel coro: fosse quello berlusconiano, fosse quello dei vuoti rituali dell’antimafia da operetta. Dire che non ti piace uno dei noiosissimi libri di Saviano, equivale ad andare a cena con Bidognetti o a fare affari con Schiavone. Sei finito. Chi ha avuto la patente di antimafioso può dire fare quello che vuole perché nessuno oserà avanzare la minima critica. Può scrive delle opere illeggibili, fare film osceni eppure tutti in coro, con vuoto e fascistissimo unanimismo italico, stanno lì a porgere il loro servo encomio. Nessuna voce critica si distingue. Il conformismo violento spegne ogni intelligenza. Questa è quella che io chiamo antimafia di carta. Serve a far carriera, ad ottenere lucrosi contratti, insomma serve a chi fa i proclami e gira per convegni o fa le serate come un divo. È l’antimafia dei salotti e delle terrazze, delle spiagge di Sabaudia o del Circeo. Quella delle ospitate da Fazio. Dei contratti firmati con le case editrici di Berlusconi (pecunia non olet), delle candidature blindate.
L’antimafia è invece cosa serissima, quella vera è fatta di carne e sangue, sviluppa la sua azione lontana dai palchi, dai salotti televisivi, a farla fortunatamente sono in tanti. Donne e uomini, come quelli che nel corleonese lavorano nelle cooperative di Libera e sfidano ogni santo giorno i mafiosi che una volta possedevano la terra e le case sulle quali lavorano, oppure come gli avvocati che lavorano con Don Ciotti e magari difendono una ragazza che, dopo che gli hanno ammazzato la madre, decide di abbandonare la sua famiglia ‘ndranghetista. Sono magistrati come Nino Di Matteo. Sono preti come Don Maurizio che a Caivano ogni giorno sfida i camorristi che avvelenano la terra, l’aria, l’acqua. Sono tanti, fanno mille cose diverse, ci mettono la faccia e guardano negli occhi ogni giorno il nemico e nessuno li chiama eroi. Sono giornalisti che, battendosi anche con i loro capi, seguono ogni giorno un processo del quale nessuno vuole che si parli.
Si muovono senza titoli sui giornali, senza folle festanti. Non firmano autografi, non fanno conferenze stampa e soprattutto hanno il grande dono dell’umiltà.
I giornalisti ammazzati dalle mafie non avevano scorte, non giravano negli studi televisivi, non andavano a Cannes con i body guard sul palco; gli imprenditori che ci hanno lasciato la pelle, che hanno dovuto cambiare città, che vivono in aziende trasformate in bunker, non facevano affari con i faccendieri come Agnello, non cercavano di nascosto gli estortori per pagare il pizzo salvo poi a scrivere a Quirinale per chiedere l’esercito. Chi fa l’antimafia vera la fa assai spesso in pieno isolamento, campa e purtroppo a volte muore da solo. Gli amici li trova solo dopo che lo hanno ammazzato. Da vivi non fanno notizia e fanno sovente una vita di merda.