C’è un’altra Costituzione, “bella e impossibile”, sotto attacco. Quella giapponese. L’ aveva promesso il nuovo premier Shinzo Abe durante la campagna elettorale, lo ha ribadito, con l’eleganza e l’acume politico che gli è proprio, il suo degno compare Taro Aso, ex premier e attuale ministro delle finanze. Il quale ha però esagerato nelle sue esternazioni, provocando un putiferio in patria e all’estero (soprattutto negli Usa) quando ha suggerito, durante un convegno di vecchi fascisti locali e di falchetti neonazionalisti, di non “forzare” la situazione e di prendere esempio dalla repubblica di Weimar. “Il nazismo è nato con un processo democratico, nel pieno rispetto di una delle costituzioni più progressiste dell’epoca, quella di Weimar”. Niente forzature, polemiche, dibattiti nazionali, dunque: la revisione costituzionale deve essere fatta in silenzio, senza clamore. Dopo tutto, abbiamo la maggioranza, assoluta. Che senso ha alimentare un dibattito nazionale, con il rischio che magari prenda una piega sbagliata? Con buona pace dei nipotini dei pazzi sanguinari che misero a ferro e fuoco mezza Asia (sia Abe che Aso sono nipoti di criminali di guerra “riabilitati” dagli americani in cambio di informazioni e collaborazionismo) l’operazione non sarà così facile. Anche se non l’hanno scritta loro, ai giapponesi piace e sarà difficile, molto difficile convincerli che, in un paese in piena emergenza sociale, economica e nucleare cambiare la Costituzione sia un’assoluta priorità.
Pressoché coetanea alla nostra, la Costituzione giapponese è considerata una delle più belle – e inattuate – al mondo. A scriverla, a differenza di quella italiana, non furono rappresentanti del popolo appositamente eletti dopo la tragedia della guerra, bensì direttamente gli occupanti, cioè gli Stati Uniti. I quali, all’epoca, e nonostante le ovvie difficoltà linguistiche, fecero un ottimo lavoro, non si sa bene se per sincero sussulto pacifista o per escludere il rischio che un popolo rivelatosi particolarmente ostico potesse mai più rappresentare un pericolo per loro e per il mondo. Sta di fatto che all’articolo 9, oltre al ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali (previsto in quasi tutte le moderne costituzioni) si legge: “Allo scopo di realizzare tale obiettivo (quello di ripudiare la guerra, n.d.r.) le forze armate di terra, mare, acqua ed altro potenziale bellico non verrà mai più mantenuto”. A parte il “mai più”, presente nell’originale inglese ma sparito nella traduzione ufficiale giapponese (fatta da giapponesi “americani”, piena di espressioni incomprensibili alla maggior parte dei cittadini comuni giapponesi) è una dichiarazione di intenti senza eguali. Autorevoli esperti di diritto internazionale l’hanno per molti anni indicata come esempio di “pacifismo puro”: in essa, infatti, viene negato non solo il diritto di “guerra”, ma anche di “belligeranza”.
In altre parole, e secondo le interpretazioni ufficiali fornite fino a qualche anno fa, perfino in caso di invasione il Giappone non avrebbe avuto il diritto di difendersi. Una “lacuna” alla quale gli Usa, preoccupati dal rischio di attrazione nella sfera sovietica del Giappone, misero subito rimedio prima imponendo il trattato di sicurezza e cooperazione (Ampo, che assicura al Giappone anche l’ombrello nucleare Usa, in caso di aggressione, in cambio di ospitalità per le basi e alla rinuncia ad una politica estera autonoma) poi consentendo al Giappone, di fatto, di ricostruire le forze armate. Per pudore costituzionale il nuovo esercito, aviazione e marina militare vennero chiamate “Forze di Autodifesa”.
La modifica dell’articolo 9, che prevede l’abolizione del secondo comma, consentirebbe a queste forze armate semiclandestine di essere chiamate con il loro nome: esercito, marina, aviazione miltare. Dopo aver scatenato furiose proteste in patria e all’estero, al punto che persino il premier Abe è stato costretto ad intervenire chiedendogli di “assumersi le responsabilità del caso”, Aso ha affidato al fido Ichiro Muramatsu, uno dei suoi più stretti collaboratori, il compito di “spiegare il contesto”. Senza peraltro prendere in minima considerazione l’idea di dimettersi. E perché mai dovrebbe farlo? Nel suo bellissimo saggio Ways of Guilt (tradotto in italiano da Garzanti, con il titolo “Il passato che non passa” ) Ian Buruma spiega benissimo il “contesto” giapponese, paese dove i conti con la storia – e non certo per colpa solo dei giapponesi – non sono stati ancora fatti. “Mentre in Germania se neghi l’olocausto vai in galera – scrive Buruma – in Giappone se neghi il massacro di Nanchino rischi di diventare ministro”. Parole sacrosante, scritte oltre vent’anni fa.
Abe e Aso, due tra i più convinti “negazionisti” del pur ultraconservatore panorama politico giapponese, non solo sono diventati ministri, ma addirittura premier. Immane – e infatti non c’è riuscito per niente – il compito del povero Muramatsu, che da anni tenta di “riparare” i danni che Taro Aso infligge a se stesso e a tutti coloro che sono costretti ad ascoltare le sue farneticazioni. “Aso non intendeva certo difendere il nazismo, anzi – ci ha spiegato il povero Muramatsu – voleva sottolineare come il nazismo sia riuscito ad emergere nonostante la presenza di una Costituzione democratica come quella di Weimar”. Sarà. Chi conosce Aso, la sua famiglia e le sue origini non ha invece dubbi sul fatto che, anziché occuparsi dei suoi nipotini, questo personaggio abbia ancora l’arroganza e la pretesa di restare in politica ed esternare questo suo pensiero. Va detto tuttavia che non tutto il male vien per nuocere e che il dibattito – piaccia o meno ai sostenitori della riforma “silenziosa” – che sta emergendo in Giappone è molto salutare e forse più avanzato di quello che c’è stato in Occidente, Italia compresa, sulle responsabilità della guerra e le nefandezze compiute dai “nostri” reciproci, “eroici” soldati. Per chi volesse farsene un’idea consiglio l’illuminante Savage Continent: Europe in the aftermath of WWII dello studioso Keith Lowe. Un documentato racconto di come i vincitori festeggiavano, di volta in volta, le loro vittorie. Siamo tutti giapponesi.