Si alza il tono delle minacce occidentali verso il governo siriano. E si alza anche il tono delle dichiarazioni di Mosca, tutt’altro che favorevole a un intervento internazionale. Proprio la questione del destino degli arsenali chimici potrebbe essere la chiave per trovare l’intesa sulla Siria. Lo pensa Roy Allison, analista del think tank britannico Chatham House, in un recentissimo e articolato saggio sugli ultimi due anni di politica russa verso la Siria. C’è, secondo Allison, “la possibilità che emerga un coordinamento tra la Russia e gli stati occidentali per mettere in sicurezza gli arsenali chimici siriani ed evitare che cadano nelle mani dei gruppi più estremisti come Jabhat al-Nusra”. Allison arriva a questa conclusione al termine di una trentina di pagine fitte di dati e riferimenti storici, scritte per cercare di rispondere a una delle domande essenziali da marzo del 2011: perché Mosca è così fermamente al fianco del governo di Bashar Assad? Secondo Allison, le ragioni sono molte ed è il loro insieme che spiega questa scelta.
Si è detto che uno dei motivi siano le vendite di armi russe alla Siria. Eppure, secondo i dati del Sipri, l’osservatorio svedese indipendente che ogni anno esamina l’andamento del mercato mondiale delle armi, Damasco “pesa” appena per il 5 percento dell’export russo. La Siria, scrive Allison, “ha un debito di 3,6 miliardi di dollari verso la Russia” per precedenti contratti. Un debito che difficilmente potrà essere saldato con il paese in ginocchio dopo oltre due anni di guerra civile. Non basta a spiegare il sostegno russo nemmeno il progetto di oleodotto dall’Egitto alla Turchia in cui sono impegnate aziende russe: la politica di Mosca, infatti, secondo Allison, sta rovinando i rapporti tra la Russia e i principali paesi petroliferi, ben più importanti della Siria sul mercato internazionale dell’energia. Gli interessi geostrategici, dunque, con la base navale di Tartus, l’unica base navale russa fuori dai paesi della Csi, e il centro di ascolto di Latakia, a disposizione dell’intelligence del Cremlino. Tartus, però, è poco più di un porto di appoggio, con appena poche decine di persone di stanza. Niente che non si possa rimpiazzare, insomma, anche ignorando il senso di perdita dell’ultima presenza stabile russa in Medio Oriente dopo il crollo dell’Urss.
Il legame tra Mosca e Damasco risale appunto ai tempi dell’ex Unione sovietica, un legame di convenienza e non di identità ideologica (Assad padre è stato un feroce repressore dei comunisti siriani, per esempio). Nonostante momenti di acuta tensione, come nel giugno del 1976, quando metà dei consiglieri militari sovietici fu espulsa dalla Siria per le divergenze tra Mosca e Damasco sull’intervento siriano nella guerra civile libanese, è un legame consolidato. Tanto che, secondo alcune stime, al 2006 circa 10 mila ufficiali delle forze armate siriane si erano formati nelle accademie sovietiche e russe. Le ragioni di fondo del sostegno russo, sono essenzialmente due, secondo Allison: la prima riguarda il rischio che il conflitto siriano si estenda non solo lungo la faglia tra sciiti e sunniti, ma anche al Caucaso del nord. L’enfasi che più volte il ministro degli esteri di Mosca Sergei Lavrov ha messo sulla presenza di miliziani caucasici tra le fila dei ribelli anti-Assad e in particolare tra le formazioni jihadiste ne è una prova.
La seconda è una fondata diffidenza nei confronti degli interventi occidentali con il pretesto della difesa dei civili. La recente esperienza libica l’ha rafforzata: dopo aver accettato la risoluzione Onu 1973 che ha autorizzato l’intervento internazionale per proteggere i civili libici, Mosca ha criticato il modo in cui è stata applicata, fino al rovesciamento del regime di Gheddafi che, stando al testo della risoluzione, non era in agenda. Non incoraggiare ulteriori “regime changes”, serve a Mosca sia a rassicurare gli altri governi autoritari “amici” (dalla Bielorussia al Kazakistan, dall’Uzbekistan all’Azerbaijan), sia a prevenire l’eventuale tentazione occidentale di preparare l’escalation contro l’Iran, per la Russia un alleato molto più importante, o perfino di replicare il “modello Tahrir” anche sulla Piazza Rossa. La vera preoccupazione del Cremlino, quindi, è che la Siria sia solo una tappa. Che la via di Damasco, insomma, possa condurre fino a Mosca.
di Joseph Zarlingo