Il Pentagono dice che è tutto pronto, basta l’ordine di attacco. La Francia da giorni si dice certa che a uccidere con le armi chimiche sia stato il regime di Bashar Al Assad. L’Inghilterra per bocca di David Cameron ha già fatto sapere di avere un piano militare definito e che giovedì si potrebbe attaccare. L’Italia non si sa che pensa e tanto aspetterà gli eventi. La Russia fa valere i veti a favore di Assad e Israele non ha dubbi: a qualunque provocazione rispondere col fuoco. D’altronde lo ha già fatto tre volte negli ultimi mesi con altrettanti blitz dal cielo.
Nonostante i dubbi di fronte alla possibilità di una guerra vera e propria, l’escalation contro la Siria sembra ormai irreparabile e, come spesso la storia insegna (vedi le armi chimiche di Saddam), una volta tirata la sicura di una bomba il motivo dell’esplosione viene subito dimenticato. C’è da immaginare che in caso di evento bellico poco importerà se la notizia dei morti per gas chimico sia l’ennesimo crimine di Assad o una messa in scena dei ribelli. A quel punto sarà importante soltanto chi prenderà il potere a Damasco.
Capire quale schema di attacco possano usare gli Stati Uniti può aiutare a comprendere meglio gli equilibri che le superpotenze vorrebbero dare all’intera area in vista di un post-Assad. A luglio il capo di stato maggiore Martin Dempsey aveva, di fronte al Congresso, sottolineato il rischio e gli enormi costi di un intervento massiccio in Siria. Oltre 12 miliardi nel primo anno di guerra, immaginando di applicare lo schema usato in Afghanistan. Pochi giorni dopo un analista di un importante think tank, l’Institute for the study of war, pubblica un paper che delinea una schema molto diverso. Esattamente quello usato da Israele negli ultimi mesi (colpisci e ritorna nei confini) e quello che sembrerebbe delinearsi in queste ore. Secondo fonti di intelligence di Tel Aviv delle circa 30 basi aeree di Assad ne sarebbero rimaste attive solo sei. Capaci di mettere in movimento non più di 100 velivoli.
Secondo il paper, il piano starebbe nell’avviare una guerra di degradazione e non distruzione totale. In sostanza bisognerebbe dichiarare una no-fly zone di 10 giorni. E nello stesso lasso di tempo usare 3 navi, dislocate nel Mediterraneo, per lanciare missili Tomahawk e dalle basi turche far decollare non più di una cinquantina di velivoli per colpire anche dall’esterno dello spazio aereo siriano obiettivi sensibili. Raramente le analisi tecniche si realizzano sul campo, spesso però vengono utilizzate dai governi. E dunque vale la pena tenerne conto. Tanto più che questo schema darebbe anche un ulteriore “vantaggio” a uno dei maggiori alleati Usa nella zona: la Turchia.
Lo scorso gennaio, non va dimenticato, nel sud est del Paese è cominciato il dispiegamento delle batterie di missili Patriot, posizionate proprio con lo scopo di neutralizzare eventuali attacchi della Siria alla Turchia di Erdogan. Il tutto è stato dislocato attorno alla base Nato di Incirlik. Mentre altri armamenti sono arrivati la scorsa primavera nella base di Iskenderun (proprio di fronte ad Aleppo) che tra l’altro accoglie anche forze militari olandesi, tedesche, qatariote e dell’Arabia Saudita. Uno strano mix arabo-Nato. Sono le due basi che potrebbero diventare protagoniste di una eventuale guerra lampo durante la quale il governo di Erdogan approfitterebbe pure per regolare i conti – si fa per dire – con i guerriglieri del PKK.
A partire dal 1989 alcuni battaglioni delle milizie di Ochalan si erano rifugiati in Siria avendo ottenuto una parziale libertà d’azione dal padre di Bashar Assad. Durante la tensione diplomatica tra Israele e Turchia (vedi la flottiglia diretta a Gaza) funzionari di Tel Aviv aveva suggerito di armare i curdi in chiave anti turca. Cosa che ha fatto invece Damasco, riconoscendo il potenziale destabilizzante per la Turchia. Non a caso in passato Erdogan ha più volte minacciato di invadere la Siria, guarda caso nell’area settentrionale dove opererebbero i militanti PKK impegnati contro i ribelli anti-Assad. Accantonata la strategia di terra (per la quale i turchi riceverebbero un no secco di Obama), nessuno esclude che in mezzo agli obiettivi dei raid aerei Nato (o non Nato) qualcuno infili le basi dei curdi. In questa ottica e dopo una decina di giorni di attacchi militari, Assad potrebbe lasciarsi convincere ad aprire un tavolo di trattative, gli Usa ne uscirebbero rafforzati e la Turchia farebbe un passo in più nella direzione dell’impero ottomano che tanto piace a Erdogan. Almeno nella teoria. Nella pratica ci tanto tante variabili in più. Due si chiamano Russia e Cina.
Mondo
Siria, la strategia della guerra lampo di Obama. E il ruolo di Erdogan
L'ipotesi di un conflitto degli Stati Uniti contro Assad appare sempre più concreta. Il presidente americano spera di approfittare delle scarse difese aeree di Assad per pochi raid mirati. Mentre la Turchia potrebbe approfittarne per regolare i conti con il Pkk
Il Pentagono dice che è tutto pronto, basta l’ordine di attacco. La Francia da giorni si dice certa che a uccidere con le armi chimiche sia stato il regime di Bashar Al Assad. L’Inghilterra per bocca di David Cameron ha già fatto sapere di avere un piano militare definito e che giovedì si potrebbe attaccare. L’Italia non si sa che pensa e tanto aspetterà gli eventi. La Russia fa valere i veti a favore di Assad e Israele non ha dubbi: a qualunque provocazione rispondere col fuoco. D’altronde lo ha già fatto tre volte negli ultimi mesi con altrettanti blitz dal cielo.
Nonostante i dubbi di fronte alla possibilità di una guerra vera e propria, l’escalation contro la Siria sembra ormai irreparabile e, come spesso la storia insegna (vedi le armi chimiche di Saddam), una volta tirata la sicura di una bomba il motivo dell’esplosione viene subito dimenticato. C’è da immaginare che in caso di evento bellico poco importerà se la notizia dei morti per gas chimico sia l’ennesimo crimine di Assad o una messa in scena dei ribelli. A quel punto sarà importante soltanto chi prenderà il potere a Damasco.
Capire quale schema di attacco possano usare gli Stati Uniti può aiutare a comprendere meglio gli equilibri che le superpotenze vorrebbero dare all’intera area in vista di un post-Assad. A luglio il capo di stato maggiore Martin Dempsey aveva, di fronte al Congresso, sottolineato il rischio e gli enormi costi di un intervento massiccio in Siria. Oltre 12 miliardi nel primo anno di guerra, immaginando di applicare lo schema usato in Afghanistan. Pochi giorni dopo un analista di un importante think tank, l’Institute for the study of war, pubblica un paper che delinea una schema molto diverso. Esattamente quello usato da Israele negli ultimi mesi (colpisci e ritorna nei confini) e quello che sembrerebbe delinearsi in queste ore. Secondo fonti di intelligence di Tel Aviv delle circa 30 basi aeree di Assad ne sarebbero rimaste attive solo sei. Capaci di mettere in movimento non più di 100 velivoli.
Secondo il paper, il piano starebbe nell’avviare una guerra di degradazione e non distruzione totale. In sostanza bisognerebbe dichiarare una no-fly zone di 10 giorni. E nello stesso lasso di tempo usare 3 navi, dislocate nel Mediterraneo, per lanciare missili Tomahawk e dalle basi turche far decollare non più di una cinquantina di velivoli per colpire anche dall’esterno dello spazio aereo siriano obiettivi sensibili. Raramente le analisi tecniche si realizzano sul campo, spesso però vengono utilizzate dai governi. E dunque vale la pena tenerne conto. Tanto più che questo schema darebbe anche un ulteriore “vantaggio” a uno dei maggiori alleati Usa nella zona: la Turchia.
Lo scorso gennaio, non va dimenticato, nel sud est del Paese è cominciato il dispiegamento delle batterie di missili Patriot, posizionate proprio con lo scopo di neutralizzare eventuali attacchi della Siria alla Turchia di Erdogan. Il tutto è stato dislocato attorno alla base Nato di Incirlik. Mentre altri armamenti sono arrivati la scorsa primavera nella base di Iskenderun (proprio di fronte ad Aleppo) che tra l’altro accoglie anche forze militari olandesi, tedesche, qatariote e dell’Arabia Saudita. Uno strano mix arabo-Nato. Sono le due basi che potrebbero diventare protagoniste di una eventuale guerra lampo durante la quale il governo di Erdogan approfitterebbe pure per regolare i conti – si fa per dire – con i guerriglieri del PKK.
A partire dal 1989 alcuni battaglioni delle milizie di Ochalan si erano rifugiati in Siria avendo ottenuto una parziale libertà d’azione dal padre di Bashar Assad. Durante la tensione diplomatica tra Israele e Turchia (vedi la flottiglia diretta a Gaza) funzionari di Tel Aviv aveva suggerito di armare i curdi in chiave anti turca. Cosa che ha fatto invece Damasco, riconoscendo il potenziale destabilizzante per la Turchia. Non a caso in passato Erdogan ha più volte minacciato di invadere la Siria, guarda caso nell’area settentrionale dove opererebbero i militanti PKK impegnati contro i ribelli anti-Assad. Accantonata la strategia di terra (per la quale i turchi riceverebbero un no secco di Obama), nessuno esclude che in mezzo agli obiettivi dei raid aerei Nato (o non Nato) qualcuno infili le basi dei curdi. In questa ottica e dopo una decina di giorni di attacchi militari, Assad potrebbe lasciarsi convincere ad aprire un tavolo di trattative, gli Usa ne uscirebbero rafforzati e la Turchia farebbe un passo in più nella direzione dell’impero ottomano che tanto piace a Erdogan. Almeno nella teoria. Nella pratica ci tanto tante variabili in più. Due si chiamano Russia e Cina.
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Parigi, 17 feb. (Adnkronos/Afp) - Il primo ministro polacco Donald Tusk ha dichiarato che l'Europa è consapevole che i suoi legami con gli Stati Uniti sono entrati in una "nuova fase", dopo aver partecipato a una riunione di emergenza sulla sicurezza con altri leader europei a Parigi. "Tutti a questo incontro sono consapevoli che le relazioni transatlantiche, l'alleanza Nato e la nostra amicizia con gli Stati Uniti sono entrate in una nuova fase. Lo vediamo tutti", ha detto Tusk ai giornalisti a Parigi.
Parigi, 17 feb. (Adnkronos/Afp) - Il primo ministro britannico Keir Starmer ha invitato gli Stati Uniti a fornire "una garanzia di sicurezza" in Ucraina, affermando che è "l'unico modo" per dissuadere la Russia dall'attaccare nuovamente il Paese.
"Sono pronto a prendere in considerazione un impegno delle forze britanniche sul terreno insieme ad altri se si raggiungerà un accordo di pace duraturo", ha dichiarato il leader, dopo un incontro di emergenza a Parigi con i suoi omologhi europei. “Ma deve esserci il sostegno degli Stati Uniti, perché una garanzia di sicurezza da parte degli Stati Uniti è l’unico modo per scoraggiare efficacemente la Russia dall’attaccare nuovamente l’Ucraina”, ha aggiunto.
Milano, 17 feb. (Adnkronos) - Luca Tomassini, ex rappresentante legale della Vetrya, che si era aggiudicata l'incarico per lo sviluppo dei servizi digital delle Olimpiadi e Paraolimpiadi Milano-Cortina 2026, si è presentato in procura a Milano e si è riservato di tornare per spiegare alcuni aspetti dell'inchiesta per turbativa d'asta e corruzione. Accompagnato dal difensore Giordano Balossi, l'indagato ha interloquito con i titolari dell'indagine - l'aggiunta Tiziana Siciliano e coi pm Francesco Cajani e Alessandro Gobbis - e si è riservato su un possibile interrogatorio più approfondito. Confronto atteso a breve e comunque prima della scadenza del termine delle indagini che è previsto per metà marzo.
Tel Aviv, 17 feb. (Adnkronos/Afp) - Il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha annunciato di voler creare un'agenzia speciale per la "partenza volontaria" dei residenti di Gaza, dopo l'impegno del primo ministro a rispettare il piano del presidente americano di prendere il controllo del territorio palestinese e di sfollarne gli abitanti.
"Il ministro della Difesa Israel Katz ha tenuto una riunione oggi sulla partenza volontaria dei residenti di Gaza, dopo di che ha deciso di creare un'agenzia speciale per la partenza volontaria dei residenti di Gaza all'interno del Ministero della Difesa", si legge in una nota del ministero.
Almaty, 17 feb. (Adnkronos/Afp) - Sette persone sono rimaste intrappolate in una miniera di rame nel Kazakistan centrale a causa di un crollo. Lo hanno reso noto le autorità locali, aggiungendo che sono in corso le operazioni di soccorso. Secondo quanto riportato dai media kazaki, l'incidente è avvenuto a una profondità di circa 640 metri.
"A causa della rottura dei cavi, al momento non c'è comunicazione con i lavoratori", ha affermato in una nota il gestore della miniera, Kazakhmys. Non è stato specificato quando è avvenuto l'incidente, ma si è verificato presso lo stabilimento "Zhomart" dell'azienda, inaugurato nel 2006 nella regione centrale di Ulytau.
Roma, 17 feb. (Adnkronos) - Giorgia Meloni ha lasciato il vertice di Parigi senza alcuna dichiarazione all'uscita. Per il momento non c'è una valutazione in chiaro da parte della presidente del Consiglio. Ma a Roma, a Montecitorio, le opposizioni incalzano e chiedono alla premier di venire in aula a chiarire in Parlamento cosa sta accadendo e quale è la linea dell'Italia nello sconquasso provocato dalle mosse dell'amministrazione Trump in Europa e sul fronte del conflitto ucraino. Pd, Movimento 5 Stelle e Avs si fanno portatori della richiesta. I 5 Stelle chiedono comunicazioni in aula con un voto.
"La presidente Meloni deve venire in aula a riferire su quanto sta accadendo. Su quella -dice Nicola Fratoianni- che potrebbe diventare la road map per una pace, per un cessate il fuoco, per un accordo in Ucraina. Si annuncia a Riad l'incontro tra la delegazione americana e quella russa. Un incontro in cui l'Europa non esiste e penso che questo sia un problema di cui il Parlamento, tutto il Parlamento, dovrebbe discutere. Non c'è tempo da perdere".
A nome del Pd parla il responsabile Esteri, Peppe Provenzano: "Giorgia Meloni deve venire in Aula, perché siamo alla fine del mondo di ieri", esordisce. "Gli alleati che ci avevano aiutato a liberarci dall'abisso del nazifascismo, oggi spalleggiano gli estremisti di destra, nostalgici del nazismo, in Germania. L'idea di escludere l'Europa dal negoziato per la pace in Ucraina è un attacco diretto al nostro continente". Di fronte a tutto questo, incalzano i dem, la premier "deve dirci da che parte vuole stare". Provenzano richiama "l'improvvida solitaria presenza della premier alla cerimonia giuramento di Trump", modo per sottolineare un "rapporto privilegiato" con la nuova amministrazione. Ma "in pochi giorni si è aperta una voragine nell'Atlantico" E "l'Italia deve scegliere da che parte stare. Il governo deve dirci da che parte vuole stare. Se partecipare al rilancio di un necessario protagonismo dell'Europa o continuare a stare dalla parte di chi vuole picconare la nostra costruzione comune".
E se il Pd conferma la linea del supporto a Kiev insieme alla richiesta di uno sforzo diplomatico europeo, i 5 Stelle rivendicano di sostenere "da tempo che andava trovata una soluzione diplomatica". Fino "a pochi mesi fa la premier Meloni diceva che con Putin era inutile parlare. Mi chiedo se ora direbbe lo stesso anche a Trump. Vogliamo delle comunicazioni del governo sulle novità della situazione ucraina, e le vogliamo con voto. Vorremmo sentire almeno per una volta Giorgia Meloni. La aspettiamo''.
Sul punto è poi tornato anche il capogruppo M5S, Riccardo Ricciardi, quando tutta l'aula si è alzata per una standing ovation in solidarietà al presidente Sergio Mattarella per gli attacchi subiti da parte del governo russo. Ricciardi nel dare solidarietà sottolinea però che il passaggio fatto dal capo dello Stato a Marsiglia, "che sicuramente è stato male interpretato, è un passaggio che noi non avremmo fatto perché dà la leva alla narrazione che da più due anni si sta facendo in Italia e in Europa, che giustifica il continuo invio di armi per continuare una guerra che ora si rendono tutti conto dovrà arrivare a una trattativa".
A stretto giro la replica in aula del capogruppo Fdi, Galeazzo Bignami: "Sono maldestri i tentativi di qualcuno di aprire, anche su questo, una distinzione che non ha ragione d’essere perché ci sarà tempo e modo di poter discutere se la trattiva di pace” sull’Ucraina “si aprirà grazie magari all’invio delle brigate del reddito di cittadinanza o grazie al fatto che qualcuno è stato al fianco di Kiev, grazie alla postura di questo governo, in continuità anche rispetto a quando voi avevate votato a favore dell’invio di armi".
Riad, 7 feb. (Adnkronos/Afp) - La delegazione russa, tra cui il ministro degli Esteri Sergei Lavrov e il consigliere del Cremlino Yuri Ushakov, è arrivata in Arabia Saudita per colloqui di alto livello con funzionari statunitensi. Lo ha riferito la televisione di Stato russa.
Il canale di notizie Rossiya 24 ha mostrato i funzionari sbarcare da un aereo nella capitale saudita Riad. "La cosa principale è iniziare una vera normalizzazione delle relazioni tra noi e Washington", ha detto Ushakov a un giornalista dopo l'atterraggio.