Non ha retto il peso insopportabile degli orrori commessi dal padre e si è ammazzata. Ana Mladic – figlia del generale Ratko, il famigerato boia dei Balcani autore della strage di Srebrenica e prima ancora del sanguinoso assedio di Sarajevo – la notte del 24 marzo del 1994 si è sparata un colpo in testa con la Zastava, la vecchia pistola che lei e suo padre ritualmente smontavano e lucidavano, perché doveva essere in perfette condizioni il giorno in cui a nonno Ratko, Ana avrebbe regalato un nipotino. Allora avrebbe sparato “a festa”.
Il suicidio di Ana Mladic, brillante studentessa di medicina all’università di Belgrado, è l’episodio da cui la scrittrice catalana Clara Usòn – ospite quest’anno al Festivaletteratura di Mantova dove incontrerà il pubblico il 7 settembre alle ore 16 a Palazzo D’Arco – prende spunto per costruire un romanzo, “La figlia” (Sellerio, 485 pagine, 16 euro), che mescola realtà storica e fiction in modo impeccabile, ricostruendo una pagina di storia drammatica, come è stata la guerra nella ex Jugoslavia, attraverso gli occhi della figlia di un criminale di guerra catturato dopo anni di latitanza soltanto nel maggio del 2012 e ora in attesa di giudizio al Tribunale penale internazionale dell’Aja. Clara Usòn mette insieme i pezzi del rapporto fra Ana e suo padre partendo dalla fine. Ossia da quel video che circola su Youtube, tratto da un programma della televisione bosniaca chiamato 60 Minuta. In questo frammento si vede prima il generale parlare al telefono sotto gli occhi ammirati della figlia, una bella ragazza alta e magra dai capelli rossi. Un frame più avanti ritroviamo Mladic seduto serenamente attorno a un tavolo con i familiari. Di colpo, l’immagine sfuma. Breve nero e compare la lapide che in caratteri cirillici riporta il nome di Ana Mladic e due date, l’alfa e l’omega della sua breve vita, 1971-1994.
La scrittrice catalana nel libro di quasi cinquecento pagine, costatole tre anni di lavoro, cerca di riempire quel nero. Prova a capire cosa sia successo ad Ana, ammiratrice del padre che considerava un eroe serbo. Uno che combatteva dalla parte giusta. Si domanda, la Usòn, cosa l’abbia spinta a togliersi la vita. Di ritorno da un viaggio a Mosca con alcuni amici, Ana cambia. Non riesce più a sorridere. Piange di continuo. Gli amici, le persone che incontra al di fuori della propria cerchia familiare, iniziano a farle crollare quel muro di protezione innalzato intorno a Ratko. L’eroe, in un crescendo tragico dai connotati shakespeariani, diventa uomo e infine si rivela criminale. I dubbi diventano certezze, quando Ana legge i diari di guerra del generale – uno che “nella Jugoslavia in tempo di pace”, scrive la Usòn, “non sarebbe mai diventato generale” – e trova quelle conferme che non avrebbe voluto. Scopre che l’adorato papà ha mandato a morire di proposito un suo ex fidanzato sul fronte bosniaco. Viene a conoscenza del fatto che dalle colline intorno a Sarajevo papà e i suoi uomini sparavano alla cieca in città, senza distinguere fra militari e civili. E le si attorcigliano le budella quando legge che il generale Ratko Mladic ordinava ai militari della repubblica Srepska – avamposto della Grande Serbia in terra bosniaca guidato da Radovan Karadzic – di sparare sui civili e di mirare alla carne “per farli diventare matti”. Ripensa a quel dialogo fra i suoi amici al caffè Ukraina di Mosca. Non vista, sentì Petar dire: “Se mio padre fosse un bastardo di serial killer, io mi sentirei responsabile. Per ogni vita che salverà la dottoressa Ana Mladic, suo padre avrà lasciato dietro di sé migliaia di cadaveri”. Un anno dopo la morte della figlia, Ratko Mladic diede il via all’operazione Stella (così chiamava Ana) che ebbe il suo apice nella strage di Srebenica. L’11 luglio del 1995 Mladic e i suoi uomini entrarono nell’enclave musulmana e sotto gli occhi dei caschi blu sterminarono quasi novemila persone. A oggi. Perché ogni anno il numero delle vittime sale. Tuttora un’equipe di medici e biologi di stanza a Tuzla cerca di mettere insieme i brandelli di corpi straziati e sparpagliati in diverse fosse comuni, per dare un nome ai morti. E ogni anno il numero delle vittime aumenta.