Gli Stati Uniti pensano ad “azioni militari limitate” in Siria, che possano “scoraggiare e indebolire” le forze militari del presidente Assad. Eppure l’opzione militare resta una scelta difficile e rischiosa per l’amministrazione Obama, soprattutto di fronte alla propria opinione pubblica; di fronte a un Paese che negli ultimi dodici anni ha sperimentato due guerre difficili e costose in aree del mondo lontane, che gli americani sentono poco collegate ai loro interessi primari e quotidiani.
La maggioranza dei cittadini Usa, dicono una serie di rilevazioni di questi giorni, restano in larga parte contrari a un intervento militare in Siria. Un sondaggio Reuters/Ipsos della settimana scorsa mostra che il 75 per cento degli americani si oppongono all’uso della forza contro il governo di Damasco. Il risultato è simile a quello che emergeva da una rilevazione di inizi giugno di CBS/New York Times, secondo cui il 69 per cento dei cittadini Usa pensa che gli Stati Uniti non abbiano alcun obbligo in Siria. E’ vero che l’uso di armi chimiche e la strage di civili potrebbe aver spostato di qualche punto i numeri e che l’idea di un conflitto “limitato nel tempo” potrebbe avere l’effetto di ammorbidire le resistenze. Ma la realtà con cui al momento Obama deve confrontarsi è soprattutto una: la maggioranza degli americani non vede di buon occhio l’ennesimo sforzo militare all’estero.
Negli orientamenti dell’opinione pubblica contano sia le preoccupazioni interne – per l’economia, l’occupazione, l’educazione – ma anche l’esperienza tragica delle guerre in Afghanistan e Iraq. Un altro recente sondaggio ABC/Washington Post rivela che soltanto tre americani su dieci ritengono che abbia avuto senso combattere in Afghanistan. Il dato numerico e i suoi risvolti politici sono stati recentemente riassunti da Julia Clark, vice-presidente di “Ipsos Public Affaire”, secondo cui “gli ultimi anni ci hanno rivelato lo scarso appetito degli americani per questo genere di azioni militari”. In altre parole, l’“internazionalismo” Usa è a uno dei punti più bassi della storia e la popolazione è stanca e sospettosa nei confronti di opzioni costose in termini di vite umane e di budget.
A consigliare prudenza a Obama e a i suoi viene anche il recente passato. L’intervento militare in Libia, che per certi versi potrebbe essere considerato simile a quello in preparazione contro Assad, non ha mai conquistato l’appoggio della maggioranza degli americani. Nel giugno 2011, a intervento Nato contro Muammar Gheddafi già ampiamente in corso, soltanto il 30 per cento degli americani riteneva che gli Stati Uniti stessero facendo “la cosa giusta”. A complicare ulteriormente le cose viene poi un dato legato alla percezione che gli americani hanno delle vicende siriane. Assad e la Siria sono, agli occhi di molti americani, un soggetto molto più vago, meno conosciuto, rispetto ad altre zone e poteri del mondo. Tutte le rilevazioni di questi mesi mostrano che la percentuale dei favorevoli all’uso delle armi cresce immediatamente nel caso l’oggetto dell’intervento militare siano l’Iran o la Corea del Nord. Per gli americani, spiegano molti sondaggisti, la minaccia nucleare iraniana o un possibile attacco della Corea del Nord contro il Sud sono soggetti molto più chiari e comprensibili rispetto a quanto sta avvenendo in Siria. In altre parole, è molto difficile identificare chi sono i “bad guys” di Damasco.
Non sono comunque soltanto i sentimenti dell’opinione pubblica a mostrare forti resistenze all’invio di forze militari Usa in Siria. Anche molti settori della politica non mostrano alcun entusiasmo per un nuovo invio di truppe in Medio Oriente, che viene generalmente considerato tardivo e senza alcuna garanzia di successo. Obama deve anzitutto vedersela con i suoi, con i democratici, che si trovano di fronte a una difficile campagna elettorale per le elezioni di midterm 2014 e che non hanno alcuna voglia di trovarsi di fronte a elettori delusi dai cattivi risultati dell’economia e inferociti per le nuove spese militari. Loretta Sanchez, numero due dei democratici nella Commissione Forze Armate della Camera, ha spiegato che gli Stati Uniti devono affidarsi alla mediazione delle Nazioni Unite e ha messo in guardia contro l’eventuale intervento: “La situazione in Siria non è mai stata così complicata – ha detto la Sanchez – e un intervento militare potrebbe avere conseguenze non volute che potrebbero ulteriormente peggiorare la situazione”.
Lo scetticismo dei democratici è rispecchiato dalle posizioni di una buona parte dei repubblicani. La sempre maggior forza che la componente libertaria e quella del Tea Party hanno acquistato rende il GOP molto poco disponibile nei confronti di avventure militari nel mondo. Se l’establishment più classico e tradizionale del partito appoggia Obama – John McCain e Lindsay Graham si sono detti favorevoli ad “azioni limitate” – il resto dei senatori e deputati si mostra comunque molto più tiepido, paventando le conseguenze che l’uso della forza potrebbe avere sia sulle vicende interne siriane sia a livello internazionale. I dubbi dei conservatori sono stati riassunti da Tom Rooney, un repubblicano membro della Commissione Sevizi della Camera, secondo cui “il conflitto siriano è andato ormai troppo avanti per prendere posizione ora. I ribelli sono infiltrati da Al Qaeda … e la Russia non ci aiuterà a trovare una soluzione perché le relazioni russo-americane non sono mai state così cattive negli ultimi trent’anni”. Democratici e repubblicani sono comunque pronti a valutare la strategia americana in Siria quando il Congresso tornerà a riunirsi, all’inizio di settembre, dopo Labor Day. A quel punto Obama dovrà giustificare la sua politica in Siria, ci sia stato o meno un intervento militare contro Assad.