Sottomissione, violenza familiare e incesto. Al 70esimo Festival di Venezia, in un concorso dai troppi sbadigli e dalle limitate sorprese, è il giorno del film greco Miss Violence. Ci volevano le gesta ignobili di un orco, dalle sembianze comuni di un esigente e autoritario capofamiglia, come il protagonista del film di Alexandros Avranas, per ritrovarsi di fronte ad una taciuta e raccapricciante rappresentazione della violenza quotidiana tra le quattro mura domestiche. Il tonfo, giù dal terrazzo, con una verticalità rosselliniana, della figlia undicenne Angeliki, proprio il giorno del suo compleanno quando l’intero nucleo festeggia meccanicamente l’evento, apre lo squarcio esistenziale di un tranquillo gruppo di famiglia in un interno ateniese, nell’anno di crisi 2013.
Un uomo maturo, senza nome riconoscibile se non quello di “padre”, sfodera un bigio completino da impiegato – precario – e controlla la silente e livida moglie, una complessata figlia trentenne, la sveglia nipote 14enne e due bimbi di 8 anni Filippos e Alkmini. Basta poco per capire che quel suicidio iniziale, sottolineato da un dolente sorriso dalla bimba che si getta nel vuoto, è il passaggio obbligato per entrare, e rimanere, dentro all’appartamento dell’orrore. Lo schema gerarchico del capofamiglia è chiaro. Organizza le vite, le mansioni, le parole e quasi i pensieri degli abitanti della casa: toglie moltissimo per poi dare pochissimo, schiaffeggia e poi accarezza, usa violenza su tutti e poi ripara con qualche pallina di gelato. Un lento crescendo di suspense dove si accumulano i gesti ripetuti del padre/nonno, l’effetto dell’oppressione sulle singole ragazze e gli abusi sessuali sulla figlia, sulle nipoti (figlie anch’esse?) portate in dono ad amici e sconosciuti, per guadagnarci qualche decina di euro.
Il tutto avvolto in una patina conformista, senza volgarità o esibizione di dettagli pruriginosi. “Sono storie che accadono accanto a noi, ma nessuno le vuole vedere e finge di non percepirle oltretutto questa è tratta da una storia vera ancor più disumana di come l’abbiamo descritta”, ha spiegato il giovane Avranas al suo secondo lungometraggio, “Vivendo in una società in cui non si vuole guardare oltre le apparenze, basata su criteri patriarcali, saremo sempre repressi, non ci sarà mai nessuno che vuole fare la rivoluzione”. Anche se Avranas ci tiene a mantenere la dimensione politica sul piano simbolico: “Nelle società patriarcali la violenza viene insegnata da chi detiene il potere. E a questa violenza siamo abituati e paradossalmente se non c’è, ne sentiamo la mancanza”.
Non mancano i riferimenti narrativi alla situazione di crisi economica del singolo nucleo familiare: il padre è ragioniere, ma a termine; la madre e le figlie non lavorano e l’intero gruppo vive di sussidi dello stato: “Quando i servizi sociali fanno l’ispezione nell’appartamento e non si accorgono di nulla, non mi volevo assolutamente riferire agli ispettori Ue che arrivano in Grecia e non capiscono che accade. E’ l’ente statale che preferisce non vedere nascondendosi dietro al suo ruolo formale. Ho cercato invece di portare una critica profonda alla società sul piano simbolico come faceva Pasolini”.
L’autore di Uccellacci e Uccellini, in compagnia di Haneke – basti pensare ad Amour – rimane il punto di riferimento estetico e morale del cinema di Avranos e del film: macchina da presa perlopiù fissa, movimenti circolari e piani sequenza che si contano sulle dita di una mano, silenzi e particolari non visti quando invece si potevano spettacolarizzare: “Il ritmo mi è stato imposto dal film e ho scelto la tranquillità. Apparentemente in Miss Violence non accade nulla, ma non potevo di certo nascondermi dietro un naturalismo pornografico della visione”. Difficile che la giuria si dimentichi di questa importante sorpresa del Festival.