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Il liceo classico ‘è stato morto’

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Convegno serale in una prestigiosa università milanese, domande ai relatori. Uno studente stupisce il pubblico ponendo il suo quesito – rivolto a un parterre misto – direttamente in inglese. Fa una bellissima figura, tanto che al termine dell’articolato discorso – rectius: speech – non trattiene un compiaciuto sorriso. Prima di rispondere, il moderatore chiede al giovanotto di tradurre a beneficio dei non anglofoni: lui esegue con frasi brevi, pensate in inglese. Verso il finale scivola: “Quando il protagonista è stato morto”. La lingua – anche quella straniera – batte dove il dente duole. Ma uno dirà: capita di sbagliare. Of course! Epperò l’orecchio del nostro studente modello non sente proprio la stonatura. Allo strafalcione non segue alcuna correzione e al tavolo dei relatori solo un canuto prof tradisce l’orrore con un impercettibile spasmo muscolare. Ma nessuno fiata: le correzioni, si sa, mortificano l’alunno.

Questa storia racconta benissimo l’Italia se – co m e spiega Repubblica – è vero che i licei classici sono a un passo dalla chiusura per un’inarrestabile emorragia di iscrizioni al Ginnasio. Perfino a Firenze è in crisi nera il liceo intitolato a quel tizio diventato famoso per aver scritto un’incomprensibile commedia in versi e per aver amato tutta la vita una tale Beatrice che manco gliel’ha mai data.

Molti giubilano: per anni, pregevoli ministri di destra e di sinistra ci hanno spiegato che sono fondamentali le tre “i” (inglese, impresa e imbecillità) e non certo le lingue morte. Che anzi potenzialmente sono perniciose per i teneri virgulti: si sa mai che traducendo una versione di Tucidide o Lisia, s’imbattano in inopportuni elogi della democrazia. Oggidì serve parlare l’inglese (ma spesso è solo globish), più che conoscere l’alfabeto di Omero o i Pensieri di Marco Aurelio (sì, il vecchietto del Gladiatore di Ridley Scott). Dopotutto i turboragazzi moderni – always connected, nativi digitali e probabilmente pure satellitari – sono tutti più o meno bilingui. Tra gli alfieri della nuova cultura globalizzata nessuno si pone il problema di cosa si dicono i ragazzi, oltre a rallegrarsi perché sanno farlo in una lingua diversa. Sapere non è più importante. Non esiste alcuna sanzione sociale verso l’ignoranza, perché abbiamo una classe digerente impresentabile anche da questo punto di vista (memo: il tunnel Ginevra-Gran Sasso scoperto dal ministro Gelmini). La cultura non dà da mangiare e dunque non serve. Tuttavia non bisogna sottovalutare le necessità dei giovani perché anche oggi – a.D. 2013 – continuano a fare le stesse cose di sempre, tipo innamorarsi. Solo che lo fanno così: “Con te accanto posso rinunciare ha tutto”, annuncia su un muro un writer in love. E sotto, un pignolo buontempone che sembra uscito dalla penna di Guareschi, ha aggiunto: “Anche all’italiano”.

Chi si azzarda a sostenere che sapere è (ancora) potere viene immediatamente tacciato di passatismo oscurantista e conservatore. “Ora il vecchio mi parla d’ altre rive/ d’altri tempi, di sogni… E più m’alletta/ di tutte, la parola non costretta/di quegli che non sa leggere e scrivere. Sereno è quando parla e non disprezza/ il presente pel meglio d’altri tempi/ “O figliuolo, il meglio d’altri tempi /non era che la nostra giovinezza!”. È indubbiamente vero, ma per saperlo bisogna aver letto L’analfabeta del vecchio, crepuscolare e polveroso Guido Gozzano.

@silviatruzzi1

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