“Sodomizzami!” implorava una fantastica Mariangela Melato ad un selvaggio e perplesso Giancarlo Giannini che sicuramente avrebbe gradito l’invito se avesse compreso il significato di quel termine. Il film di Lina Wertmueller “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” proponeva il naufragio su un’isola deserta di una ricca e viziata milanese con il mozzo della sua barca. E scoppiava la passione. Entrambi consenzienti si godevano l’isola deserta liberando i propri corpi. Beati loro.
Negli ultimi giorni si è molto discusso intorno ad un’ intervista rilasciata dal regista Bertolucci in cui racconta come la famosa scena in “L’Ultimo Tango a Parigi”, in cui Brando sodomizza Maria Schneider aiutandosi con un po’ di semplice burro che scatenò le fantasie italiche, non sarebbe stata concordata prima con l’attrice, tanto che questa serbò rancore al regista per tutta la sua breve vita.
Marina Terragni ne ha fatto un post molto dibattuto, anche Loredana Lipperini ne ha scritto. Sulla rete trovate diverse opinioni.
Il punto che mi pare importante discutere in modo divulgativo è se l’arte può giustificare la violenza. Un critico d’arte che conosco mi ha risposto infastidito “Sì, certo, l’arte giustifica tutto o quasi. Se Bertolucci avesse avvisato l’allora ventenne Schneider dell’intenzione di trasformare una scena che prevedeva un amplesso con una scena di sodomia, questa forse si sarebbe rifiutata o avrebbe “recitato”. Invece, attraverso il pianto dovuto alla sorpresa dell’attrice, abbiamo ottenuto un capolavoro”.
Ah. Ma è proprio così?
Non vorrei ci lanciassimo qui in una lapidazione del regista per la sua mancanza di totale di rispetto verso una persona. Credo questo sia evidente. Ma mi lascia basita la dichiarazione di Bertolucci che non considera che le attrici recitano, e che compito di un regista è dirigerle.
Se così non fosse il cinema avrebbe seminato morti e feriti da decenni. Una guerra: meglio se ammazzi veramente, è più credibile. Un’amputazione in un film horror? Pure. E così via.
Il mitico Actors’ Studio di New York si basa sul metodo Strasberg, un lungo training praticato da mostri sacri come Pacino, che prevede di sviluppare la capacità fisica mentale ed emotiva di far rivivere sullo schermo il personaggio che si sta interpretando. Non dunque rappresentarlo bensì “viverlo”. Funziona se si è bravi. E la storia del cinema è ricca di esempi di attori che “rivivono” in scena la vita di personaggi e storie reali.
Anna Magnani è assolutamente credibile e giganteggia nel monologo L’Amore di Cocteau, ma non per forza per risultare credibile la scena di Anna doveva prevedere che lei realmente fosse state abbandonata dall’amante. A volte può accadere che un’attrice utilizzi la sua esperienza personale a scopi artistici, ma non è la norma.
E dunque il problema è un altro. Bertolucci con molta probabilità, aveva scelto la giovanissima Schneider in base al suo aspetto fisico, e non alle sue doti artistiche, e dunque non riteneva che la giovane donna potesse “interpretare con verità” ciò che invece lui riteneva indispensabile.
Che fare? La soluzione deve essere parsa facile sia al regista che a Brando: sorprendere Maria, non avvisandola delle loro intenzioni ed ottenendo così ciò che entrambi volevano.
E’ dunque evidente come Schneider sia stata usata con violenza e senza rispetto. Però, è bene specificare, non in nome dell’arte. Per pigrizia forse. Per non dovere impiegare tempo a spiegare ciò che si voleva ottenere. Per noncuranza.
Tutte motivazioni inaccettabili.