Solo qualche anno fa Adriano Galliani affermava che “il Milan non è ostaggio degli ultrà, è un problema che non sento”. Era il 2009. Oggi denuncia che le società sono sotto scacco dei tifosi. Il cambiamento di pensiero dell’amministratore delegato rossonero è l’emblema dell’ennesimo caos che sta travolgendo il calcio italiano, pur avendo ben poco a che fare col calcio giocato. C’è uno stadio (San Siro, sponda milanista) chiuso per cori offensivi nei confronti dei tifosi del Napoli. I napoletani che a loro volta si ‘auto insultano’ (“Napoli colera, e ora chiudeteci la curva”) per esprimere, se non solidarietà nei confronti dei supporter rossoneri, almeno la propria contrarietà all’attuale normativa. Non solo: segnalazioni difformi da parte di arbitri e ispettori federali. E Galliani che contesta il concetto stesso di “discriminazione territoriale”, proponendone l’abolizione. Nel mezzo c’è la Figc, che promette una “doverosa riflessione” sul tema, ma al contempo ribadisce che l’Italia ha solo “recepito le direttive Uefa” (che sono vincolanti).
Dovevano rappresentare la stretta decisiva nei confronti del razzismo, in ogni sua forma, all’interno degli stadi, ma i primi risultati delle nuove normative in materia di discriminazione sono disastrosi. Il dibattito è esploso all’indomani della decisione del giudice sportivo di far disputare la prossima partita del Milan a porte chiuse per i cori “espressivi di discriminazione territoriale” intonati dai suoi sostenitori nei confronti dei tifosi del Napoli. Un provvedimento “forte, molto severo, ma ineccepibile dal punto di vista normativo”, spiega Cesare Di Cintio, avvocato esperto di diritto sportivo. Il giudice sportivo ha solo applicato la pena minima prevista. Le norme, infatti, si sono progressivamente inasprite nel corso degli anni, anche a seguito degli episodi verificatisi negli stadi italiani (dai cori razzisti, agli striscioni contro Morosini).
Nel 2009 la Federazione modificò l’articolo 62 delle Noif (Norme Organizzative Interne Figc), estendendo anche ai cori (e non più solo agli striscioni) la responsabilità oggettiva delle società, e la facoltà dell’arbitro di sospendere la partita. Quest’estate, direttamente dall’Uefa, è arrivata la direttiva di revisione del codice di giustizia sportivo: chiusura parziale dello stadio al primo episodio di cori discriminatori, partita a porte chiuse e multa di 50mila euro in caso di recidiva. Quanto successo ieri al Milan. I prossimi passi sono la sconfitta a tavolino e la penalizzazione in classifica. Ipotesi di fronte a cui è insorto l’amministratore delegato rossonero, Adriano Galliani: “Se cinquanta persone si mettono d’accordo uccidono una società, è assurdo”.
Concetto ribadito anche dal presidente della Lega Serie A, Maurizio Beretta: “Il meccanismo rischia di consegnare il destino delle squadre e del campionato nelle mani di pochi irresponsabili e facinorosi”. Società e federazione, però, si svegliano a campionato inoltrato. Giusto qualche settimana fa, in un’intervista a Panorama, Roberto Massucci, numero due dell’Osservatorio del ministero degli Interni, aveva avvertito: “Il rischio che i club siano ricattabili esiste”. Adesso i nodi vengono al pettine. Le forze messe in campo (un paio di ispettori federali, steward in scarso numero e polizia mal posizionata, come ad esempio in occasione della rissa nel corso di Inter-Juventus) non sono sufficienti a reprimere ogni forma di violenza – fisica o verbale – negli stadi, come avviene all’estero. Così diventa quasi impossibile applicare in maniera sistematica la Legge Mancino, l’unica che colpisce individualmente i colpevoli. E si scarica la responsabilità sulle società.
La normativa che regola le decisioni del giudice sportivo è ferrea, ma nella fase preliminare (quella delle segnalazioni) ci sono ampi spazi lasciati alla soggettività. L’Inter, ad esempio, già sanzionata con la chiusura della Curva Nord per i cori razzisti nel corso della partita contro la Juventus, non ha ricevuto alcuna punizione per gli insulti rivolti ai tifosi napoletani durante la partita in trasferta contro il Sassuolo: né l’arbitro, né gli ispettori li hanno messi a referto. Non è chiaro a chi spetti il compito di registrare le infrazioni, se conti il numero dei tifosi coinvolti, l’intensità dei cori, l’iterazione. E soprattutto quale sia il confine fra semplici sfottò e offese discriminanti. Peraltro, la definizione di “discriminazione territoriale” (al centro delle polemiche di queste ore) non è espressamente prevista dal testo originale Uefa, che si limita a parlare di “insulti alla dignità umana di qualsiasi genere”.
Galliani, Beretta e i presidenti (Lotito lo ripete da anni) sostengono che “il razzismo va combattuto, ma questa norma non aiuta a farlo”. Così pagano le società, i tifosi (quelli i veri), il calcio. Ma la soluzione non potrà essere semplicemente eliminare il concetto di “discriminazione territoriale”, far finta che il problema tipicamente italiano del razzismo fra nord e sud non esista. “Teoricamente – spiega Di Cintio – sarebbe possibile: la direttiva Uefa è stringente per quel che riguarda le pene, ma la struttura della norma l’ha scritta la Figc. E’ soprattutto una questione politica: bisogna capire quale messaggio si vuole far passare. Solo col tempo potremo arrivare ad un’applicazione coerente di questa nuova legge, e capire se si tratta dello strumento giusto per combattere il razzismo”.