“Oggi non si può soltanto piangere, è tempo di imparare qualcosa”. Questo scriveva Tina Merlin cinquant’anni fa all’indomani del disatro del Vajont. Se fosse tra noi, oggi, scriverebbe la stessa cosa.
Sono passati cinquanta anni da quel 9 Ottobre 1963. Sono passati cinquanta anni da quegli istanti, quando alle 22 e 39 un intero mondo smetteva di esistere. Case, persone, pascoli, animali spazzati via in pochi secondi da 260 milioni di metri cubi di terra e fango. Sono passati cinquant’anni da quei 1918 morti. Sono passati cinquant’anni e quello squarcio enorme sulla montagna è rimasto lì al suo posto. Un squarcio indelebile, che quando lo vedi rabbrividisci e pensi alla piccolezza delle ‘grandi’ opere umane.
Io con il Vajont non c’entro nulla. Sono nato nella parte opposta della penisola. La storia di quel disastro era per me solo un nome. Non avevo mai letto nulla su di essa e mai nessuno si era curato di parlarmene. Poi, un’insolita giornata di ferragosto passata tra Longarone, Erto e Casso, i racconti di chi affonda le radici fra quelle montagne, e quell’immagine indelebile quanto suo malgrado simbolica. L’immagine di quella montagna divelta finita nella gola, un lago che non c’è più, quella diga che si erge intatta, quasi perfetta con le sue volte, ad un altezza di oltre 260 metri. Quest’immagine incancellabile quanto immobile ha soppiantato silenziosa quella di una valle intera piena di vita.
Quella montagna sradicata ha il sapore acre della storia e la voce chiara di mia nonna. La voce di quel mondo contadino spazzato via dalle onde del lago del Vajont, quel mondo contadino cancellato via da uno Stato che, della memoria collettiva non sapeva che farsene. E allora Erto, Casso e Longarone sono Calabricata e Mellissa. Le donne e gli uomini sepolti dal fango si chiamano tutti Giuditta Levato, e quella terra inondata dal fango è la stessa bagnata dal sangue dei contadini calabresi che non si volevano piegare al vangelo dei potenti.
Quello squarcio perpetuo sulla montagna è cinquantanni di storia del nostro paese.
C’è proprio tutto in quello squarcio eterno.
C’èla natura che si oppone ad un progetto troppo grande. C’è un monte che si sgretola così come la saggezza popolare aveva previsto. C’è il pressappochismo di chi fa soldi senza scrupoli. C’è la corruzione delle istituzioni, che invece di vigilare sull’interesse colletivo, rilasciamo permessi senza colpo ferire. C’è una diga di 200 metri che diventa di 260, ed un bacino d’acqua che con un colpo di penna triplica il suo volume. Ci sono uomini che inascoltati misurano con perizia e ostinazione una frana sepolta sotto i pascoli di un monte. C’è l’urlo di Cassandra disperata che due anni prima ‘prevede’ il disastro dalle colonne del suo giornale. C’è l’orgoglio cocciuto di chi ha provato a difendere la terra in cui era nato. Ci sono uomini influenti in giacca e cravatta che nascondono in un cassetto le prove di un disastro annunciato. Ci sono pene ridicole per i ‘soli’ due colpevoli di una strage immane. Ci sono finanziamenti a fondo perduto per far ripartire l’economia della valle che vanno anche a chi non e’ stato toccato. C’è il coraggio dei soccorritori che abbandonano le loro case per dare una sepoltura ai cadaveri. C’è la perizia e l’ingegno tipicamente italico nel costruire una diga così perfetta da resistere ad un onda d’urto dieci volte superiore a quella prevista. Una perizia che si trasforma in tragedia.
Nella tragedia del Vajont ci sono cinquant’anni di avvertimenti e parole inascoltate. Le parole inascoltate di tutti i disastri annunciati che hanno funestato e funesteranno la vita del nostro paese. Ci sono cinquant’anni di lezioni che hanno il sapore greve delle nostre radici. Quelle radici che con regolarità scientifica continuiamo a voler recidere con l’insipienza di chi, è da sempre incapace di dialogare con il passato nel viaggio verso la modernità.