Nonostante le tensioni politiche tra la Casa Bianca ed il partito repubblicano, l’economia americana continua a risalire la china della recessione grazie al boom energetico. Nel secondo trimestre del 2013, l’economia non è cresciuta dell’1,7 per cento, come annunciato un paio di settimane fa, ma del 2,5 per cento, questa l’ultima revisione annunciata venerdì scorso dal Dipartimento del Commercio americano. Da aprile a giugno le esportazioni sono cresciute al ritmo più alto degli ultimi due anni, e così facendo hanno ridotto il deficit della bilancia commerciale al 2,7 per cento del prodotto nazionale lordo. Meno della metà rispetto all’apice del 6 per cento del Pil raggiunto nel 2005.

La spinta alle esportazioni proviene dalla vendita all’estero di prodotti e non di servizi. In prima fila c’è il petrolio e tutti i suoi derivati, petrolio prodotto grazie al fracking, la nuova tecnologia inventata dagli americani. Fino a giugno, Washington ne ha esportato in media 99 milioni di barili al mese, si tratta di circa quattro volte quanto esportava dieci anni fa.

Nel 2011, dopo sessanta anni, gli Stati Uniti sono finalmente tornati ad essere un esportatore netto di prodotti petroliferi. La produzione interna ha anche dato una grossa spinta alle raffinazione che prima dipendeva dall’importazione di greggio. A parte i 3,5 milioni di barili di greggio spediti attraverso il gasdotto in Canada, l’America esporta prodotti raffinati, con un più alto valore aggiunto e cioè benzina e diesel. Tra i nuovi compratori figurano molte economie emergenti: India, Brasile, Cina e Turchia.

Il boom energetico americano non solo sta riportando la bilancia commerciale in equilibrio, un fenomeno che non si verificava dai tempi della Guerra Fredda, è anche fonte di tensione con la Russia, e quindi in un certo senso contribuisce a ricreare l’atmosfera di tensione politica tra le ex due superpotenze.

Oggi la Russia può essere definita un petro-Stato, una nazione la cui economia dipende dalle risorse energetiche. Secondo le statistiche della Banca europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, alla fine del 2012, il petrolio ed il gas naturale costituivano il 70 per cento delle esportazioni russe, mentre negli anni Novanta erano meno del 50 per cento. Circa la metà delle entrate del governo ed il 17 per cento del Pil proviene dal settore energetico. Gazprom, la società energetica russa, rappresenta il 14 per cento del capitale totale della borsa russa.

Non solo questa nazione è la prima produttrice al mondo di energia e la seconda di gas naturale dopo gli Stati Uniti, è anche la prima esportatrice di questi prodotti. Ma questo primato sta scemando a causa della concorrenza americana e nel lungo periodo è destinato a scomparire: le riserve petrolifere russe, principalmente ubicate tra gli Urali e la Siberia centrale, sono infatti in grado di sostenere la produzione attuale soltanto per altri 20 anni, questo quanto si legge in uno studio della la Banca Europea per la ricostruzione  lo sviluppo. A differenza degli americani i russi non hanno neppure iniziato ad investire nel fracking per estrarre le riserve della siberia orientale.

Putin è perfettamente cosciente di questa situazione ma non ne possiede la soluzione. Fino ad oggi il suo potere e quello dei suoi fedeli sostenitori ha poggiato sulle risorse energetiche, se queste si riducono o scompaiono, la popolarità di Putin potrebbe risentirne. E questo spiegherebbe il ritorno alle tensioni della Guerra Fredda ed alla propaganda anti americana, un tentativo forse disperato di mantenere il potere su basi ideologiche piuttosto che economiche.

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