“Nessuna possibilità per il Nero-Verde”. Così ha scritto ieri sera il sito della Bild sintetizzando l’esito dei colloqui tra la Cdu/Csu (normalmente rappresentati dal colore nero) e i Grünen (verdi) per la formazione di un’alleanza che dia finalmente un governo alla Germania. Sono passate ormai quasi cinque settimane da quelle elezioni che se da una parte hanno sancito il successo di Angela Merkel (41,5% dei voti), dall’altra la stanno costringendo a cercare un partner di minoranza per colmare quel divario di soli cinque seggi per raggiungere la maggioranza.
Oltre alla Cdu e alla sua sorella bavarese, la Csu, sono solo tre gli altri partiti presenti in parlamento: l’Spd, i Verdi e la Die Linke. Escludendo gli ultimi, da sempre diametralmente opposti ai cristiano-democratici, la Merkel aveva ed ha tuttora solo due altri possibili interlocutori. Il fallimento delle negoziazioni con i Verdi (che vorrebbero soprattutto un aumento delle tasse per finanziare una maggiore spesa pubblica e una riforma delle assicurazioni sanitarie private) porterà quasi certamente ad un’alleanza con l’Spd. Domani inizierà il terzo sondaggio esplorativo dal giorno del voto e sabato prossimo dovrebbe esserci l’annuncio ufficiale. Secondo un sondaggio dell’Insa commissionato dalla Bild, a questo punto ben il 62% dei tedeschi si aspetta una coalizione Nero-Rossa anche se solo il 32% la desidera.
Siamo quindi di fronte ad un rinnovo della Große Koalition del 2005? Sì e no. Sì, perché formalmente sarà un governo nero-rosso come all’epoca. No, perché le premesse sono completamente diverse rispetto ad allora. Nel 2005 i cristiano-democratici e i socialdemocratici uscirono dalle urne quasi in perfetto pareggio (40,8% i primi, 38,4% i secondi). Le trattative durarono più o meno quanto queste del 2013 (elezioni il 18 settembre, annuncio dell’accordo 10 ottobre), ma la squadra di governo che ne uscì dimostrò quella parità di risultati. All’Spd andarono otto ministeri, alla Cdu/Csu sette, più il diritto di proporre il cancelliere (Angela Merkel). La cancelliera stavolta gioca da una posizione di forza. Vuole cedere il meno possibile visti i pochi voti che la dividono dalla maggioranza assoluta.
Allo stesso tempo l’Spd sa bene che se entrasse nel governo senza far sentire bene la propria voce, ma solo come “stampella”, le sue possibilità di vittoria alle prossime elezioni del 2017 sarebbero minori di quelle conseguenti ad una legislatura fatta stando all’opposizione. Non solo. Rischierebbe di bruciarsi anche quella graduale apertura ad un’alleanza di largo respiro anche con quella Die Linke, che poco prima del voto, non aveva escluso del tutto la possibilità di sedersi ad un tavolo e parlare anche di possibili alleanze con Spd e Verdi. Per quanto molti socialdemocratici esultarono quando nella notte del 22 settembre divenne chiaro che i liberali dell’Fdp, storici alleati della Merkel, non sarebbero entrati in parlamento, aprendo quindi le porte ad un rinnovo della Große Koalition, a distanza di qualche settimana, per l’Spd l’ingresso nella squadra di governo non è visto come un traguardo da raggiungere a tutti i costi.
In cambio del proprio appoggio i socialdemocratici guidati da Sigmar Gabriel (l’aspirante cancelliere Peer Steinbrück si è fatto da tempo da parte) vogliono qualcosa che possa dimostrare ai propri elettori di “aver vinto”. Non solo un numero importante di ministeri da governare, ma “un tema”. Probabilmente lo otterranno e sarà l’introduzione di un salario minimo all’interno del mercato del lavoro. Bisognerà vedere quanto questa possibile svolta sarà contenuta in termini di limitazioni ed eccezioni. Se è vero che la Germania può vantare una disoccupazione ferma al solo 5,3%, dall’altra all’interno di quel dato non sono contenute le tante persone retribuite con paghe minime integrate però da aiuti statali. Se si dovesse pretendere di far pagare di più ai datori di lavoro, quanto cambierebbe quel dato? E che effetto farebbe sui mercati internazionali e sul resto dell’Unione Europea l’aumento della disoccupazione in Germania?