Roma, una città invivibile, ingiusta, lasciata in balìa dei potenti signori del mattone, come racconta Francesco Erbani in ‘Roma.Il tramonto della città pubblica‘.
‘Siamo sicuri che le trasformazioni avvenute o che stanno avvenendo a Roma vengono incontro a bisogni collettivi? O non sono, invece, l’effetto di strategie immobiliari che danno lustro e soldi ai privati e scaricano oneri sul pubblico recando un utile molto dubbio alla città? Chiede retoricamente l’autore, la cui risposta, tristemente scontata, conoscono bene i cittadini romani che hanno visto crescere ai bordi di quel G.R.A. cinematograficamente celebrato, interi quartieri e centri commerciali frutto di una speculazione insensata e vergognosa.
Roma, nella cronaca di questi giorni, teatro e presidio dei collettivi e dei movimenti per il diritto all’abitare e No-Tav: “La casa è un diritto per tutti, stop agli sfratti. No alla service tax“. Questi gli slogan dei manifestanti che accolgono il neo sindaco Marino strattonandolo per la cravatta.
Roma che amplia e ridisegna il proprio perimetro attraverso la forza della rendita fondiaria e della speculazione edilizia. Roma, con un deficit di circa 9 miliardi di euro, che,“quasi come una Banca Centrale, non potendo stampare moneta, stampa metri cubi di nuove costruzioni che diventano la moneta urbanistica per risanare il bilancio delle casse comunali.”
Lo affermano gli architetti Giorgio Mirabelli e Lucilla Brignola, intervenuti lo scorso 15 ottobre a Spalato a Un Habitat, the scientific international roundtable: “urban economics; historic and port cities” con un contributo dal titolo “Rome: a wrong model of development”. Roma, un modello di sviluppo sbagliato, perché, come illustrano i relatori, con il nuovo P.R.G. del 2008 si metteva in cantiere l’impressionante previsione edificatoria di 70 milioni di metri cubi di nuova realizzazione; prevedendo, allo stesso tempo, l’espansione e il consumo di altro terreno agricolo dell’Agro Romano per ulteriori 15.000 ettari, portando il totale del territorio urbanizzato dell’area metropolitana di Roma a circa 60.000 ettari, una fascia larga circa 100/120 Km, una conurbazione tra le più grandi del mondo.
Un fallimento assoluto, un Piano Regolatore che non è stato in grado di invertire la rotta segnata fino a quel momento e dettata dalla mancanza di un ragionamento lungimirante e complessivo sull’intero assetto della città. La non-novità era rappresentata dal ritorno alla città policentrica. Soluzione discutibile, soprattutto dal punto di vista sociale prima ancora che da quello urbanistico, visti gli esempi fallimentari degli anni ’70. Le Centralità hanno ragione di esistere se al loro interno sono previsti, oltre alle residenze, anche i servizi, le attività commerciali e direzionali, gli uffici e parte di quelle funzioni pubbliche che non possono più rimanere nelle zone centrali di una città con un Centro Storico come quello di Roma. Non hanno alcun senso se diventano un ulteriore esempio di quartieri dormitorio senza servizi, senza infrastrutture, senza trasporto ed attività direzionali pubbliche quale è nella tristemente realtà romana.
Le 18 Centralità previste nel nuovo P.R.G. infatti, non nascevano da una pianificazione, dalle vere esigenze di sviluppo del territorio o da una visione globale del suo assetto; bensì venivano individuate tra quegli insediamenti, in parte spontanei ed abusivi, sorti in maniera irregolare negli anni precedenti. Con queste premesse, era inevitabile e prevedibile il disastro compiuto dal potere economico-finanziario che si immola al dogma neoliberista della crescita infinita. Queste soluzioni, concludono gli architetti Mirabelli e Brignola, non possono più trovare giustificazioni dal punto di vista urbanistico ed architettonico, perché, nella nuova idea di città, non è più consentito disattendere le aspettative di qualità della vita dei cittadini che hanno il Diritto di vivere degnamente i luoghi e gli spazi della propria città.