chiesa1Abkhazia e Ossetia del Sud parlano due lingue antichissime che non hanno nulla a che vedere con quella georgiana.  Che ha un bell’alfabeto suo proprio, senza eguali altrove nel mondo. L’unica cosa che hanno in comune, tutte e tre queste lingue, è l’asprezza, la durezza rocciosa del Caucaso. L’abkhazo ha addirittura 64 lettere, di un alfabeto così spigoloso che pare contenga ben sette variazioni della ‘k’,  consonante principe che a noi latini è sconosciuta. L’abkhazo si scrive in caratteri cirillici, ma ne hanno dovuti inventare di speciali per coprire un alfabeto appunto molto più ricco del russo. L’osseto non è meno complicato, almeno a prima vista. Incomprensibili tutti e tre per noi stranieri. Ma incomprensibili anche tra di loro.

Perché parto da qui per affrontare un problema politico molto complicato e aperto, come una ferita ancora sanguinante? Perché penso che una lingua è un popolo. Penso proprio a una corrispondenza biunivoca tra lingua e popolo: pressoché indistinguibili. Togliere la sua lingua a un popolo è come ucciderlo. Oppure è come togliergli l’anima. Infatti è impossibile farlo. Quella lingua vivrà insieme all’ultimo individuo che la parla. E forse anche dopo, chissà? Non è un caso se la questione della difesa delle proprie lingue dalla prepotenza dell’etnia dominante georgiana è stata una delle cause principali dell’ostilità reciproca che si è instaurata nell’area. Ora si dà il caso che questi tre popoli non solo hanno lingue incomunicanti: non hanno nulla che li accomuni. Nulla se non una reciproca, inconciliabile inimicizia che colloca abkhazi e osseti (del sud e del nord) da una parte di una insuperabile barricata e i georgiani  dall’altra parte.

E’ una constatazione, alla quale non intendo aggiungere nessun giudizio di valore. E’ così e basta. E’ un punto fermo che non può essere negato. Chiunque abbia visto da vicino la situazione non può che giungere alla stessa – infatti innegabile – conclusione.  Fino ad ora non ho trovato nessuno, che sia sano di mente, che la neghi. Il perché, le cause, di questa insanabile, irreparabile in ogni arco di tempo prevedibile, divisione e inimicizia aperta, è oggetto di dispute altrettanto feroci  circa le responsabilità, le colpe, i crimini che l’hanno creata. Poiché è evidente che ci sono responsabilità, lontane e vicine, quando tali inimicizie si creano e si diffondono in tutti gli strati di un popolo. Ma io non intendo minimamente affrontare queste questioni, la storia da cui scaturiscono. Sarebbe operazione insensata che produrrebbe ulteriori acrimonie.

Il dato è che ora vi sono due frontiere: quella tra Georgia e Abkhazia e quella tra  Georgia e Ossetia del Sud, che sono state insanguinate da guerre violentissime, che hanno lasciato sul terreno migliaia di morti da entrambe le parti, che sono state seguite da drastiche pulizie etniche reciproche.  Qualunque ragionamento che prescinda da questo dato è privo di efficacia. Peggio: è pericoloso. Prevengo l’obiezione: ma non si potrebbe tentare una pacificazione? Risponderei così: nulla si può escludere, salvo una cosa, che ciò possa avvenire nei tempi brevi.  Dovranno avvicendarsi le generazioni, e apparire i nipoti di coloro che si sono reciprocamente massacrati.  Allora, forse, sarà possibile dimenticare, non certo adesso. Perché mai dovrebbero stare insieme? Non c’è motivo che tenga in piedi una tale ipotesi se non un’idea avvelenata e avvelenatrice di possesso degli uni sugli altri. In questo caso della Georgia nei confronti dell’Abkhazia e dell’Ossetia del Sud

Ed è un caso davvero difficile da dipanare, poiché Abkhazia e Ossetia del Sud furono parte, fino al crollo dell’Unione Sovietica, della Repubblica Socialista Sovietica di Georgia. E se ne sono andati entrambi fuori non appena si è aperto uno spiraglio per farlo. Il perché è abbastanza presto detto. Fu il georgiano Stalin che regalò entrambe alla Georgia, secondo i calcoli del divide et impera e quelli dell’accondiscendere alle ambizioni delle etnie maggiori contro le minori. Più o meno come fece Krusciov quando regalò la Crimea all’Ucraina. Era il tempo in cui si pensava a Mosca che l’Unione Sovietica sarebbe durata in eterno e, dunque, che importanza aveva quali fossero i confini interni di stati e repubbliche e regioni? Decisioni prese da autocrati, che rimangono sepolte per decenni come bombe inesplose, ma che poi esplodono, prima o dopo, comunque.

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[/error]Dunque, sotto un certo aspetto – ma quale errore tragico sarebbe pensare che sia l’unico aspetto del problema –  si tratta di una disputa proprietaria attorno alla questione di chi ha il diritto, più o meno storico, di possedere quelle terre. I fatti sono molto più complicati. E uno dei tasselli del problema è che la Georgia è molto più grande, con i suoi circa 2,5 milioni di abitanti, sia della Ossetia del Sud (che ne ha circa 100 mila),  che dell’Abkhazia (che ne ha meno di 300 mila). E’ dunque anche una questione di minoranze etniche che sono state bistrattate e violentate a più riprese. Infatti hanno voluto andarsene e hanno combattuto con tutte le forze per andarsene. Adesso l’Unione Europea e, in generale, l’Occidente, vuole che tornino all’ovile, in base al principio sacro di Helsinki: quello dell’intangibilità delle frontiere come  strumento per evitare, appunto, quello che è accaduto. Tuttavia esiste un altro e opposto principio, non meno anzi più sacro del primo, che è quello del diritto all’autodeterminazione dei popoli.

La domanda è: come scegliere tra questi due principi? Ed è una domanda politica. Sul campo, di guerra, la risposta è stata data dalla dura realtà dei rapporti di forza. Gli interessi della Russia – sebbene nella più grande confusione d’intenti all’interno della stessa Russia – hanno avuto il sopravvento. La disputa è aperta ed è densa di gravi ripercussioni, poiché i paesi occidentali non intendono abbandonare il campo e puntano a ripristinare il diritto proprietario della Georgia, loro alleata, su quelle terre, Sulle quali, tuttavia, abitano popoli irriducibili, che non sono affatto identificabili con gli interessi strategici della Russia, ma che si appellano alla sua protezione per la semplice e banale ragione che è la condizione sine qua non per la loro esistenza fisica.

Così siamo giunti allo stallo attuale. Ossetia del Sud e Abkhazia  sono diventati Stati, formalmente parlando, il 26 agosto del 2008, poco più di due settimane dopo la data fatidica dei ‘tre otto’ (8-8-2008)) che coincise con la sconfitta dell’offensiva militare georgiana contro l’Ossetia del Sud e la sua capitale Tzkhinval. La Russia dell’allora presidente Dmitrij Medvedev e dell’allora premier Vladimir Putin  riconobbe a entrambe le repubbliche (che già si erano proclamate indipendenti sedici  anni prima, all’incirca) il ruolo di Stati indipendenti e sovrani e stipulò accordi di alleanza, anche militare, con esse, come deterrente per impedire future operazioni militari. L’Unione Europea ignora pervicacemente questa realtà e altrettanto fanno gli Stati Uniti. Il principio che essi invocano è diventato però inservibile dopo che Ue e Usa lo violarono platealmente nel Kosovo, calpestando le frontiere della ex Jugoslavia in nome dell’autodeterminazione del popolo kosovaro e poi dichiarando che si trattava di una eccezione alla regola. E dunque essi usano un altro pretesto, che consiste nel sottintendere  che Tzkhinval e Sukhum, le due capitali ‘ribelli’, altro non sarebbero che appendici della Russia odierna e dei suoi interessi strategici.

E questa è una tesi che i fatti stessi dimostrano assai traballante. La Russia, infatti, non riconobbe formalmente la sovranità di Ossetia del Sud e di Abkhazia per ben 16 anni consecutivi, e lo fece soltanto quando apparve evidente che la Georgia di Saakashvili – se non fosse stata fermata con la forza – avrebbe proceduto con l’annessione violenta di entrambi i territori, massacrando allegramente le popolazioni civili. Ora che fare? Sukhum e Tzkhinval festeggiano i loro 20 anni di indipendenza reale. E non c’è modo di tornare indietro se non riaprendo le ostilità militari. Esiste un negoziato a Ginevra, sotto l’egida delle Nazioni Unite, con la partecipazione di Russia e Stati Uniti, che si trascina senza risultati dal 2008. Abkhazia e Ossetia del Sud propongono alla Georgia di firmare un patto di rinuncia all’uso della forza per ripristinare ciò che essa ritiene essere un diritto violato. Apparentemente è poco, sostanzialmente aprirebbe la strada a una normalizzazione della situazione su quelle frontiere, alla ripresa dei traffici, alla fine del blocco, ai movimenti delle persone. Tbilisi non ne vuole neppure parlare, con la tesi che firmare un patto equivale a riconoscere gli altri firmatari. E l’Europa, incredibilmente, incoraggia Tbilisi. Irrealpolitik , che conduce in un vicolo cieco in fondo al quale c’è di nuovo la guerra.

Adesso i presidenti di Abkhazia e Ossetia del Sud si sono rivolti ufficialmente al governo italiano con la richiesta del riconoscimento diplomatico. Che, ovviamente, gliela rifiuterà, seguendo la  ‘logica’ dell’Unione Europea , che è quella della guerra fredda. Inutile chiedersi cosa ne pensa il Parlamento italiano. Assai pochi, tra i nostri deputati, sanno dove si trovino questi due piccoli popoli, con le loro lingue astruse. Quasi nessuno ne conosce la storia. Sarebbe un’ottima occasione per imparare qualche cosa e per far sentire una voce dell’Italia diversa da quella che parla con l’accento inglese. 

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