Potremmo risparmiare fino a 20 milioni di euro l’anno con un tasto schiacciato in Parlamento. E al tempo stesso cominciare un’operazione di alleggerimento della popolazione carceraria che apra una prospettiva diversa da indulti e amnistie. E’ tutto pronto da 22 anni. Ma la politica latita. Tra gli accordi internazionali sul trasferimento dei detenuti per scontare la pena all’estero alcuni sono pronti da tempo ma non vengono ratificati in Parlamento, nonostante la girandola infinita di funzionari tra un capo e l’altro del mondo e schiere di onorevoli impegnati nelle commissioni congiunte a limare testi che non ricevono poi il voto che li renderebbe operativi. Oggi si sta perfezionando in Commissione esteri e giustizia quello con l’Egitto che ha avuto lunga gestazione. Ma forse l’esempio più clamoroso è l’accordo con il Brasile che dopo vent’anni non è ancora andato in porto.

Mentre altri Paesi come Spagna, Inghilterra e Canada hanno un trattato di cooperazione dagli anni Novanta con Brasilia, l’Italia ha firmato il suo solo nel 2009, 19 anni dopo gli altri Paesi. Ora il testo è finalmente pronto, è solo da approvare. Ma a distanza di altri quattro anni non è entrato in vigore perché non è stato mai ratificato in Parlamento. Per sapere come è andata l’uomo giusto è 9mila chilometri di distanza. Pasquale Matafora è il funzionario dell’ambasciata italiana responsabile della cooperazione giudiziaria in Brasile per il Ministero degli Affari Esteri. E al tempo stesso è responsabile dell’assistenza dei detenuti italiani in Brasile. E quindi guarda alla condizione dei carcerati di uno e dell’altro Stato. E di quell’accordo mancato, sa tutto. “Gli italiani hanno il diritto di sapere che il loro Paese è disinteressato alle sorti dei nostri connazionali reclusi in Brasile”, spiega. “Quel testo l’ho visto nascere, io stesso l’ho spedito in Italia una volta incassato l’ok dalle autorità brasiliane. Non è mai tornato indietro sottoscritto dal Parlamento”. E non è una formalità mancata ma un’occasione persa per fare giustizia, risparmiare e avviare l’alleggerimento della popolazione carceraria del nostro Paese.

“Lasciamo stare i benefici umanitari per i 150 detenuti brasiliani in Italia legati alla possibilità di ricevere le visite dei familiari o sperare in percorsi rieducativi nel proprio paese”. Andiamo al sodo, dice Matafora. “Quando il trattato è andato in porto avevamo in Italia 350 detenuti per un costo medio stimato in 150 euro a testa al giorno. La possibilità di rimpatriarli avrebbe garantito allo Stato risparmi per 50mila euro al giorno, 20 milioni di euro l’anno”. Ma il Parlamento, anno dopo anno, non ha mai colto l’occasione di questo risparmio. “Il primo incaglio fu col Guardasigilli Roberto Castelli che pretendeva che le autorità brasiliane sottoscrivessero un accordo con deportazioni di massa. Ma il diritto internazionale non li prevede perché deve esserci la volontà del singolo, nessun automatismo”. Poi venne Clemente Mastella e nel 2006 il testo viene sottoscritto da entrambi i Paesi. Da allora manca solo la ratifica della commissione e del Parlamento. In pratica, una firma.

“Ho sollecitato parlamentari che hanno fatto interrogazioni, come Fabio Porta (Pd), per convincere Berlusconi e Scotti ad accelerare le cose anche perché gli italiani carcerati in Brasile sono una cinquantina e per noi sarebbe stata un’operazione vantaggiosa”. Di più. “A un certo punto abbiamo voluto sondare quali fossero le reali intenzioni dei carcerati brasiliani in Italia. Spesso infatti ci è stato risposto che questa volontà in realtà non c’è ed era per questo che l’accordo non andava in porto. Non è così. Abbiamo fato un sondaggio a campione sui detenuti brasiliani in Italia. E abbiamo scoperto che la maggior parte degli intervistati avrebbe optato per il rimpatrio perché in questo modo poteva beneficiare almeno dell’assistenza dei propri familiari”.

E dire che per l’accordo si era molto speso l’allora ambasciatore Michele Valensise, oggi potente segretario generale della Farnesina. Ma niente da fare, si è rimandato di legislatura in legislatura anche se i vantaggi per l’Italia erano evidenti. “Da responsabile dell’assistenza ai carcerati italiani in Brasile, posso testimoniare che la situazione per loro è disperante. Ma non possiamo fare molto per aiutarli, solo spendere dei soldi per garantire loro beni di prima necessità e assistenza legale. Lì, condannati a scontare la pena nell’inferno delle celle brasiliane a 9mila chilometri di distanza da casa”. Sullo sfondo del mancato accordo, dicono alcuni, il caso politicamente spinoso della mancata estradizione dell’ex terrorista Cesare Battisti, arrestato proprio in Brasile nel 2007 e scarcerato dopo quattro anni. In realtà, controbattono alcuni dipolmatici, è un paravento per l’immobilismo del Parlamento italiano.

“Con Monti c’era stata una certa accelerazione e sembrava cosa fatta. Poi il governo è caduto e tutto si è fermato”, spiegano fonti della Farnesina che assicurano oggi una “rapida risoluzione”. “Abbiamo inviato la richiesta per la verifica delle coperture al Mef che deve dare il suo avvallo preventivo. Per ogni accordo infatti devono essere indicate, anche a fronte di ipotesi di spesa contenute, le necessarie coperture. Stiamo aspettando una risposta ma siamo fiduciosi di chiudere in tempi rapidi e passare, stavolta, alla ratifica in aula”. Intanto ad affollare le carceri italiane ci sono 150 detenuti brasiliani che pesano sul conto della Giustizia italiana. E a 9mila chilometri altri 50 detenuti italiani nelle celle brasiliane che pesano sul conto del ministero degli Esteri. Basta una firma per avviare i primi rimpatri e una soluzione tra due Paesi che dialogano da anni su come venirne a capo. Ma la politica italiana guarda altrove, a un altro tipo di accordo – amnistia o indulto – che può creare uno scivolo per alcuni condannati in Parlamento. Ma non risolve il problema del sovraffollamento delle carceri e non solo a 9mila chilometri di distanza.

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