Il ministro Cancellieri ha tenuto a precisarlo fin dalle prime battute del suo intervento al Senato sull’affaire Giulia Ligresti: l’incarico in Fondiaria Sai di suo figlio Piergiorgio Peluso “è stato frutto esclusivamente della pregressa esperienza nel mondo bancario e finanziario”. L’affermazione è inattaccabile. Scorrendo il curriculum del figlio del ministro, infatti, emerge un’esperienza innegabilmente variegata che registra una particolare accelerazione col suo ingresso, nel 2002, in Medio Credito Centrale, l’ex banca pubblica per il finanziamento a tasso agevolato degli istituti regionali che Giuliano Amato aveva venduto alla Banca di Roma di Cesare Geronzi nel 1999. Nell’istituto che aveva portato in dote al gruppo romano il Banco di Sicilia, Peluso entra come direttore centrale dell’area Advisory – quindi dirigeva il servizio di consulenza finanziaria alla clientela – e ne esce tre anni dopo con la promozione a responsabile della divisione Corporate di Capitalia, cioè quella che si occupa dei rapporti con le aziende, un settore di particolare interesse per una banca “di sistema” come quella di Geronzi che proprio in quegli anni aveva iniziato a prendere a cuore le sorti finanziarie della famiglia Ligresti. L’astro del figlio della Cancellieri non si ferma neanche con la fusione tra Capitalia e Unicredit del 2007, che lo vede diventare numero uno delle attività italiane di investment banking del nuovo gruppo fino alla nomina, nel 2010, ad amministratore delegato della banca corporate di Unicredito e, quindi, di responsabile per l’Italia della divisione corporate e investment banking dell’intero gruppo.Un anno dopo il passaggio al debitore della sua banca, Fondiaria Sai.
Ma è al 2010 che risale la sua testimonianza al processo Parmalat-Ciappazzi, quello sulla vendita delle acque minerali del gruppo Ciarrapico a Collecchio che ha visto Geronzi e il suo allora amministratore delegato, Matteo Arpe, condannati rispettivamente per bancarotta fraudolenta e usura e per bancarotta fraudolenta con sentenza confermata in appello nel giugno 2013. In particolare ad Arpe, che all’epoca dei fatti era il diretto superiore di Peluso, è stata contestata la firma sul documento di trasmissione di un finanziamento ponte da 50 milioni di euro a Parmalat, approvato dal cda della Banca di Roma in concomitanza con l’acquisto della Ciappazzi e subito girato all’ancor più decotta Parmatour, alla quale sarebbe stato proprio impossibile concedere un prestito diretto. A poco sono valsi, quindi, gli sforzi di Peluso che, stando a quanto riportato nella sentenza di primo grado, secondo i giudici si è rivelato un testimone inattendibile visto che “l’attendibilità intrinseca di queste affermazioni (di Peluso, ndr) è inficiata in radice dalle numerose e palesi reticenze e contraddizioni in cui il teste è incorso pressoché tutte le volte in cui il Pubblico Ministero gli ha chiesto di confermare o di chiarire circostanze di fatto di segno sfavorevole agli imputati”.
Un giudizio piuttosto severo che ricorre in più punti del corposo documento che ripercorre le fasi cruciali dei mesi che hanno preceduto l’ufficializzazione della più grande bancarotta fraudolenta mai vista in Europa, quella della Parmalat, verso la quale Capitalia era esposta per 400 milioni di euro. In particolare i giudici si soffermano sul legame tra la concessione di nuovo credito alle attività turistiche di Collecchio e la forzata acquisizione da parte di Tanzi di una consistente partecipazione in Medio Credito Centrale. “La tesi prospettata dal Peluso trova inequivocabili smentite nel complesso dei documenti poc’anzi citati, da cui emerge invece con solare evidenza che i vertici del gruppo Banca di Roma fecero chiaramente intendere a Calisto Tanzi ed ai suoi collaboratori che la concessione di un ulteriore sostegno economico ad Hit (la Holding italiana turismo, ndr) era subordinata all’acquisto da parte di Parmalat di una consistente quota azionaria di Medio Credito Centrale”, scrivono i giudici a proposito dell’operazione di cui si era occupato proprio Peluso con il suo braccio destro Gianandrea Perco. “In realtà, come si è già detto, all’inizio dell’estate del 2002 i vertici di Capitalia – Banca di Roma erano già perfettamente consapevoli che Calisto Tanzi e la Parmalat navigavano in cattive acque e però sapevano altrettanto bene che la multinazionale di Collecchio poteva ancora ricorrere con relativa facilità al mercato internazionale dei capitali attraverso l’emissione di bond”, continua il documento nel quale si legge che i vertici della banca si erano rivolti al re del latte “a ragion veduta, in primo luogo perché sapevano che il patron di Collecchio, a causa della situazione di assoluta emergenza in cui in versava Hit in conseguenza dell’intimazione di pagamento proveniente da Efibanca, non poteva permettersi di dire di no ed in secondo luogo perché confidavano sul fatto che Parmalat avrebbe potuto pagare le azioni di Medio Credito Centrale con i proventi derivanti dalle sue ricorrenti emissioni di bond”. Le stesse, cioè, che hanno messo in ginocchio milioni di piccoli risparmiatori.
Dell’operato del tandem che si ricomporrà anche in Fondiaria Sai, i giudici ricordano poi che era dettato dalle indicazioni di Arpe, secondo le quali Capitalia avrebbe potuto finanziare il gruppo turistico soltanto se si fossero verificate due condizioni: la presentazione di un piano industriale credibile e l’esecuzione di una cospicua ricapitalizzazione – “di gran lunga superiore a quella ventilata da Calisto Tanzi e dai suoi rappresentanti” – a carico dell’azionista. Gli stessi temi, cioè, che Peluso si ritroverà a dover affrontare anni dopo, non senza una difficoltosa dialettica che lui stesso ricorda in un confronto con i magistrati, con un’altra famiglia italiana legata a doppio filo con le banche e il cui dissesto finanziario era ufficiosamente noto a molti ben prima della sua deflagrazione. I Ligresti.
E se nel caso di FonSai è ancora tutto da dimostrare, in quello dei rapporti tra le banche e Tanzi qualche punto fermo, a distanza di quasi 10 anni, è stato raggiunto. A ricordarlo sono ancora una volta i giudici del caso Ciappazzi che ripercorrono gli estremi di un interessante episodio avvenuto il 28 novembre del 2003, un mese prima della dichiarazione di insolvenza della Parmalat, quando la squadra di Peluso ottiene un incontro a Collecchio con l’obiettivo dichiarato di ottenere delle risposte a un questionario sulla solidità finanziaria del gruppo che attendeva risposta da sei mesi. Secondo i magistrati, però, la vera ragione dell’iniziativa è un’altra: “poiché ai vertici di Capitalia – Banca di Roma si era ormai fatta strada la consapevolezza che il tracollo definitivo della galassia societaria di Calisto Tanzi era ormai imminente ed inevitabile, il 28 novembre 2003 il Muto ed i suoi due accompagnatori (Peluso e Perco, ndr) si recarono a Collecchio per tentare di contenere gli enormi danni che il crack avrebbe arrecato all’istituto di credito, e cioè allo scopo di cercare di recuperare in extremis almeno una parte dei 400 milioni di euro di crediti vantati dal loro gruppo bancario nei confronti di Parmalat, evidentemente coltivando la speranza che la multinazionale alimentare non avesse le casse totalmente prosciugate”. Verità che emergerebbe proprio leggendo il resoconto redatto dal responsabile della funzione crediti di Capitalia, Antonio Muto, nel quale sono confluiti i suggerimenti dei suoi accompagnatori. Illuminanti le date di redazione del testo: la prima versione è del 28 dicembre 2003, il giorno successivo alla dichiarazione giudiziale di insolvenza di Parmalat, mentre le correzioni Peluso arrivano il 30 dicembre, giorno in cui il fermo di Tanzi veniva trasformato in arresto dal Gip nelle stesse ore in cui il figlio Stefano veniva interrogato a Parma. “Farei riferimento all’incontro con Stefano Tanzi che ha confermato che il deal sul turismo avrebbe comportato rientri per le banche essendo l’operazione strutturata come un aumento di capitale”, suggerisce tra il resto il futuro direttore generale di Fondiaria Sai in una mail che secondo i giudici conferma la tesi per cui Muto “abbia confezionato un resoconto dell’incontro del 28 novembre volutamente edulcorato, ovvero deliberatamente emendato da tutti i dettagli che potevano risultare particolarmente compromettenti per lui in particolare e per il gruppo Capitalia in generale”.