Le tessere del Pd raddoppiano come per incanto, sotto la Mole: da 12 a 26 mila in un anno. Ma non è l’unico cruccio del partito e del sistema di potere che da vent’anni governa Torino. Ci sono preoccupazioni peggiori, ombre più inquietanti, se è vero che Sergio Chiamparino, che è stato il sindaco più amato d’Italia, oggi è torchiato dai magistrati per uno scandaletto e assediato da altri cento affari del passato. Anche qui è finito il ventennio: non berlusconiano, perché tra il Po e la Dora i semi di Silvio Berlusconi non hanno mai attecchito; ma il ventennio del “sistema Torino”, che ha avuto in Chiamparino il suo campione.
Ha ricevuto un avviso di garanzia per abuso d’ufficio ed è stato interrogato a lungo a palazzo di giustizia. L’indagine riguarda le concessioni ai locali dei Murazzi, le arcate sulla riva del Po trasformate in templi della movida. C’è la firma di Chiamparino sulle delibere che, secondo l’ipotesi d’accusa, avrebbero favorito gli esercenti con sanatorie e sconti sugli affitti. L’ex sindaco più amato dagli italiani, con un gradimento del 75 per cento, ha intanto lasciato il posto di primo cittadino a Piero Fassino, compagno di partito con cui non ha un gran feeling, e si è sistemato ai vertici della Compagnia Sanpaolo, la fondazione che è primo azionista di banca Intesa Sanpaolo. È andato davanti al Consiglio generale della Compagnia a presentare le sue dimissioni da presidente: rifiutate all’unanimità.
Tutto finito, dunque? No. Intanto perché l’inchiesta sui Murazzi continua. E poi perché ci sono tante altre brutte storie del periodo in cui è stato sindaco (2001-2011) che tornano d’attualità. La più pesante riguarda lo Csea, il consorzio di formazione professionale che era arrivato ad avere 300 dipendenti, molti provenienti dal mondo sindacale, e che è fallito dopo aver bruciato 40 milioni di euro. Anche sullo scomodo crac di quello che era conosciuto come il centro di formazione professionale della sinistra torinese, l’inchiesta è in corso. Un dirigente è stato arrestato, non è invece neppure indagato il deus ex machina del consorzio, quel Tom Dealessandri che dal 2006 è stato il vicesindaco di Chiamparino, poi di Fassino e ora è approdato nel consiglio d’amministrazione di Iren, la multiutility dei Comuni di Torino, Genova e Reggio Emilia.
Fallito anche il progetto Lumiq, una società promossa dal Comune che voleva creare una piccola Cinecittà in riva al Po, per far diventare Torino una capitale dell’industria del cinema. Sogno tramontato, non senza spreco di soldi pubblici e gran montare di polemiche. Sotto indagine anche il city manager di Chiamparino, Cesare Vaciago (ora direttore a Milano del Padiglione Italia di Expo), rinviato a giudizio per un concorso per dirigenti comunali che la procura di Torino ritiene sia stato truccato. Tra i miracolati di quella magica gara c’è anche Angela Larotella, che era diventa dirigente nel settore cultura del Comune, guidato da Anna Martina, figura centrale negli anni d’oro di Chiamparino, quanto Torino, persa la centralità della Fiat, cercava di riciclarsi come città della cultura e dell’entertainment. Tutto in famiglia: il marito di Martina, Walter Barberis, ha curato la mostra torinese sui 150 anni dell’Unità d’Italia; e il figlio, Marco Barberis, ha ricevuto incarichi ben remunerati per la sua società Punto Rec; in un caso, la delibera che gli affidava i lavori era firmata direttamente dalla madre.
Troppo o troppo poco, per la morale rigorosa e la cultura un po’ giansenista di Torino? C’è un accumulo di fatti e intrecci, inchieste e scandali che rischiano di far saltare il “sistema”. Che dire, per esempio, dei 16,5 milioni di euro buttati al vento dal Comune per realizzare il progetto (firmato dall’ottimo architetto Mario Bellini) di una Biblioteca civica che non si costruirà mai? E che cosa pensare dei 6 milioni di metri quadrati di aree ex industriali riempiti di cemento, un diluvio di edilizia residenziale in una città che ha 50 mila appartamenti sfitti? “Se un quartiere come la Spina 3 l’avesse fatto la Dc”, commenta un vecchio comunista dei tempi del sindaco Diego Novelli, “il Pci avrebbe fatto la rivoluzione. Invece l’abbiamo costruito noi, e va bene così”. Va bene anche l’edificazione del grattacielo di Intesa Sanpaolo, tirato su per dare l’illusione alla città di aver conservato la sua banca, il cui comando si è invece trasferito a Milano. E tirato su in un giardino trasformato in un attimo in area edificabile: “Se l’avesse fatto la destra, ci saremmo incatenati agli alberi”.
Ci sono anche episodi più brucianti. Quando fu ipotizzato un finanziamento illecito durante la prima campagna elettorale di Chiamparino, nel 2001, saltò subito su Gioacchino Sada, vecchio partigiano comunista, che si prese la colpa di aver raccolto da alcuni imprenditori una colletta di 25 milioni di lire per il partito, e tutto finì lì. Storie vecchie. Più nuova la vicenda di Giorgio Ardito, ultimo segretario torinese del Pci e primo del Pds, che ha appena incassato in primo grado una pena di 1 anno e 5 mesi per aver ricevuto 115 mila euro da Bruno Binasco, braccio destro dell’imprenditore di strade e autostrade Marcellino Gavio. Ardito ha sostenuto che era la buonuscita (in nero) per il suo lavoro in una società del gruppo Gavio, la Sitav. I giudici non gli hanno creduto e gli hanno inflitto una condanna, per quei soldi ballerini intascati nel 2010, proprio nei mesi in cui si stava preparando la campagna elettorale per Fassino sindaco.
Con Fassino, il cerchio si chiude. E tramonta il ventennio iniziato nel 1993 con l’elezione a sindaco di Valentino Castellani: un professore del Politecnico individuato dalla Santa Alleanza tra la Torino borghese e intellettuale che ha il suo rappresentante più attivo nel banchiere del Sanpaolo Enrico Salza, e la Torino comunista e operaia del Pci, non senza il beneplacito della Fiat della famiglia Agnelli, il cui declino non era ancora evidente. Due mandati Castellani e poi due mandati Chiamparino, e il ventennio è fatto. È in questi due decenni che nella città senza berlusconismo e senza vera opposizione si blinda il “sistema Torino”, una macchina di potere che prova a governare l’uscita dal fordismo, la transizione dalla città operaia a una nuova metropoli dalla vocazione più variegata, città della cultura, del cinema, dell’intrattenimento.
Il professor Silvano Belligni, scienziato politico dell’Università di Torino, ha creato un modello per rappresentare quel sistema e ha scoperto che 120 persone in questi due decenni si sono incrociate nei posti di comando nella politica, nell’amministrazione, nelle università, nelle banche. Provengono tutte dalle quattro famiglie che hanno stretto la Santa Alleanza per eleggere Castellani e poi Chiamparino: gli ex comunisti del Pci-Pds-Ds-Pd; le fondazioni bancarie e le banche (Sanpaolo, Cassa di risparmio); il mondo Fiat (da Evelina Christillin a Piero Gastaldo); il Politecnico e l’università (da cui vengono Castellani, Mercedes Bresso, Elsa Fornero…). I 120 uomini d’oro del “sistema Torino” si sono incrociati nei posti di comando senza che fossero un ostacolo le differenti provenienze culturali: ex comunisti, cattolici cislini, liberali, massoni.
Dal profilo “tecnico” della prima giunta Castellani sono passati al ritorno della politica con il secondo mandato, per poi arrivare al culmine dell’era d’oro di Torino con la prima giunta Chiamparino, che ha raccolto i risultati del predecessore e ha incassato il successo delle Olimpiadi 2006, con tanti soldi arrivati e la città rinata e tirata a lucido. Poi il declino. Fino all’oggi, con Chiamparino sotto accusa per i cento piccoli pasticci del suo regno e Fassino a gestire di mala voglia un’eredità pesante, con il buco più clamoroso d’Italia, 3,5 miliardi di debito su un bilancio di 1 miliardo e mezzo.
Da Il Fatto Quotidiano del 7 novembre 2013, aggiornato dalla redazione web