Fuma la terra lungo le curve che da Agnano portano a Fuorigrotta. Si alzano colonnine nere come fossero figlie di un arrosto di catrame all’altezza dell’edificio che gli americani hanno abbandonato (era la vecchia sede della Nato). Chi vuole entra nel palazzone e sporca, strazia, struscia, rompe o solo lo sfiora incolonnato in auto nell’attesa di arrivare allo stadio. Il calcio è l’unica impresa che funziona a Napoli e dai tempi di Maradona il catino dove l’allenatore Benitez schiera i suoi uomini non appariva il covo di felicità compulsiva che sazia al punto da arrivare fino alla bocca dello stomaco e poi eruttare. Felicità sgraziata, rumorosa, mediamente eccessiva. Anche il San Paolo, come quasi tutto a Napoli, poggia i piedi sul cratere e sebbene la Protezione civile abbia innalzato il livello di attenzione (secondo dei quattro gradi di pericolo previsti) le caldare dei campi flegrei si trasformano da pericolo immanente a falso storico, fonte di ispirazione creativa per gli ultras.
Il Vesuvio erutta in curva, fuoco denso e rosso, tra le migliaia di comparse che costruiscono la sceneggiatura perfetta: il fuoco che allaga diviene rappresentazione di gioia pura, distillata, insuperabile. E poi sul fuoco e sui lapilli, sulla brace e sulla cenere, milanisti, interisti, juventini, romanisti quando trovano gli azzurri di fronte impegnano la loro voce: “Vesuvioooo, lavali con il fuocoooo”. I partenopei restituiscono le cortesie: “Alè Vesuvioooo, il Vesuvio è la terraaa che amiamooo, dell’eruzione ce ne freghiamooo”.
“Sono dovuta scappare da Afragola: non respiravo” – Napoli ha il fuoco nel suo ventre, borbotta, fuma, e sembra sempre pronto a esplodere. A oriente come a occidente. Ma lo custodisce come fosse un tesoro non un pericolo. “L’unica eruzione buona è quella del Vesuvio”, dice Tilde Baldascini, una giovane combattente contro lo schifo, davanti al fondale della monnezza, appena dietro la costruzione svedese e ordinata dell’Ikea, nella grande piana metropolitana a nord della città storica. La piana dei fuochi, della tosse, dei veleni, della puzza di questa terra trasformata dagli uomini in una discarica permanente, in un inferno permanente, in fuoco perenne. Marilù è invece emigrata per non sentirsi parte di quello schifo: “Sono dovuta scappare da Afragola, la mia città. Non riuscivo a respirare, quell’odore fisso prendeva alle narici e non ti lasciava più. Io e Massimo, quando abbiamo deciso che era venuta l’ora di fare un figlio, ci siamo detti: qui no, qui non è possibile farlo nascere. Ora viviamo a Pontedera, in Toscana, e sapessi che pena tornare a casa. Appena imbocchiamo lo svincolo la puzza ci assale. Io penso a mamma e a papà, alle mie sorelle che lì resistono malgrado tutto”. Afragola non è una città ma un’escrescenza edilizia, una somma di abusi all’urbanistica, alla civiltà, alla ragione stessa. Case, casone, casette, tuguri, svincoli intestati al nulla, guard rail rotti, puttane per strada insieme a mamme con la carrozzina, il venditore di patate, il negozio di sposa, il cartello pubblicitario: “Vivi i tuoi giorni felici”. Un unico anello d’asfalto s’incunea nel cordone di cemento. Un paese e l’altro, una città e l’altra, un abuso e l’altro. Un fuoco velenoso e l’altro.
Villaricca, Qualiano, Giugliano. La mappa della fetenzia è aggiornata sul web grazie al grande lavoro dei volontari che danno vita a laterradeifuochi.it. Cliccate, e a vostra scelta vi troverete a selezionare e inquadrare il cimitero dei misteri seppelliti e di quelli rinvenuti: lì una bara collettiva di bidoni tossici, qui l’amianto, lì monnezza varia. Poi percolato, liquami, fogne a cielo aperto o solo materassi, vecchie carcasse di auto, frigo, cucine da campo, tinelli sfondati, cucchiai, farmaci scaduti. Sono efferati testimoni dell’ignavia collettiva, dell’irresponsabilità collettiva. Il tribunale ha appena assolto Antonio Bassolino, ex governatore della Campania, e altri 26 indagati per l’affare discariche. Non c’è condanna e non c’è verità. “Non puoi credere a niente, perché persino la scienza bara, tarocca, tradisce. Con la montagna dei veleni che abbiamo alle spalle puoi pensare che siano sincere le parole della Protezione civile che dicono che qui, ai Campi flegrei, c’è il rischio di un nuovo, catastrofico bradisismo? Fuma la terra, embè? Rispetto a quello che hanno combinato gli uomini questa è l’ultima delle paure possibili”.
A Licola, ovest di Napoli, il sociologo Sergio Mantile mi conduce a pranzo in campagna. Costantino è il vecchio oste che mentre apparecchia ricorda: “Tranne la scossa di trent’anni fa io non ricordo terremoti qui. Sono altre le paure. L’anno scorso i canali si sono riempiti d’acqua. Telefonavo ogni giorno al Comune: veniteli a pulire che ci allaghiamo. E loro: domani vediamo. E il giorno dopo: stiamo provvedendo. Nessuno è venuto, e le piogge torrenziali ci hanno allagato e affamato. Ho perso tutto il bestiame, solo un cavallo si è salvato: per due giorni è riuscito a tenere la testa fuori dall’acqua. È stato bravo”. In una terra che non conosce verità, ma solo paura, il Vesuvio può essere fonte di disperazione? “Assolutamente no. La paura è polverizzata in mille atti quotidiani, distillata nelle forme consuete della vita familiare”, dice l’antropologo Marino Niola.
“Un pugno in faccia per uno scambio di persona” – Si ha paura di uscire di casa di sera, paura di parcheggiare e litigare con l’abusivo di turno, paura della fila, paura persino dell’ospedale. Se hai la ventura di capitare al pronto soccorso del Cardarelli chi ti salverà? Paura della vita. “Noi viviamo di piccole ma costanti paure, e di una bugia immensa, tossica, che produce solo fatalismo”, aggiunge Mantile. Succeda quindi quel che deve, siamo sotto il cielo. “Ero al bar a prendere un caffè. D’un tratto arriva un signore che mi sferra un pugno. Non l’avevo mai visto, non sapevo chi fosse né perché avesse fatto quel gesto. Alcuni avventori lo hanno separato da me gridandogli: hai sicuramente sbagliato persona, non è lui, non è lui!”. Ciro Biondi cura l’ufficio stampa della diocesi di Pozzuoli. Mesi fa si trovò il naso sanguinante, la testa tra le mani e lo stupore. “Avevo appena realizzato che ero stato vittima di uno scambio di persona, il tipo era conosciuto e considerato come uno del sistema camorristico. Cosa feci? Volli andare dai carabinieri a sporgere querela, perché non potevo credere che tutto quel che mi era accaduto fosse normale. Volevo difendermi dalla barbarie che avrebbe preso me se non avessi reagito con un atto di civiltà, di rispetto minimo per la mia dignità. Ma non me ne è venuto niente. L’aggressore ha chiesto scusa, alla fine ho rinunciato a proseguire nel processo”.
Ti può capitare di tutto a Napoli, e devi esserne consapevole. “Siamo i teorici dell’irrilevanza della verità. Persino la scienza nega fatti macroscopici. Qui la discarica di Pianura ci ha lasciato una lunga striscia di morti. Si muore di tumore molto di più che in altri luoghi”. Negli ultimi venti anni in provincia di Napoli (città esclusa) si sono avuti incrementi percentuali del tasso di mortalità per tumori del 47% fra gli uomini e del 40% tra le donne, incrementi che sono stati rispettivamente del 28,4% e del 32,7% anche in provincia di Caserta. Mentre in Italia, negli stessi ultimi venti anni, “i tassi sono viceversa rimasti tendenzialmente stabili” e “al Nord sono addirittura diminuiti”. Annota lo studio sui Comuni campani appena concluso dall’Istituto nazionale per i tumori “Pascale” di Napoli che il lavoro è stato realizzato per “verificare e valutare il fenomeno” attraverso le schede di morte individuale con diagnosi di tumore. “Questo eccesso di mortalità, che riguarda anche altre patologie cronico-degenerative – sottolinea l’Istituto – si configura come un grave problema sociale e ambientale, oltre che sanitario, di vasta dimensione e notevole gravità”, tanto che “richiederebbe maggiore attenzione da parte delle istituzioni”.
Ecco i livelli raggiunti da alcune singole patologie oncologiche. Tumore del colon retto: “In provincia di Napoli nel triennio 1988/1990 si riscontra negli uomini un tasso del 17,1 (su 100mila abitanti, ndr) negli uomini, che nel periodo 2003/2008 sale al 31,3”, mentre nelle donne gli stessi tassi per gli stessi periodi sono 16,3 e poi 23. Situazione identica a Caserta: 19,3 (sempre per 100mila) per i maschi dal 1988 al 1990 e 30,9 dal 2003 al 2008, con 16,4 e poi 23,8 nelle donne. Al contrario i tassi italiani, per lo stesso tipo di tumore e gli stessi periodi, “sono stabili, passando dal 33 al 35 negli uomini e dal 30,5 al 29,3 nelle donne”. L’aumento del tasso di mortalità femminile per tumore del polmone è il più alto in Italia. Su una base percentuale media di 45 a Caserta è del 68, il tumore alla mammella è balzato dal 21,4 al 31,3. Un altro esempio, stavolta riguardante gli uomini: il tasso di mortalità maschile per tumore al fegato registrato in provincia di Napoli nel 1988/1990 era 22,1 e quello in provincia di Caserta 22,3, livelli cresciuti via via fino al 2003/2008 rispettivamente a quota 38 e 26,4. Nello stesso periodo, al contrario, questo tasso su scala nazionale è diminuito da 12,3 a 10,7 per 100mila. Accostiamo, nel cammino verso oriente, verso il punto g del pericolo massimo, la zona rossa vesuviana, alla Città della Scienza, nella meravigliosa e intossicata baia di Bagnoli. Era il segno della rinascita culturale, una speranza in più. Era terreno bonificato e salvato alla speculazione. Fuoco anche lì. Appiccato dai criminali. Tutto è bruciato e ora? “Napoli è il luogo delle illegalità più acute e della fantasia primordiale. Pensi che avevano delimitato l’area rossa, questa che vede alle pendici del Vesuvio, secondo i confini amministrativi dei Comuni. Avevano sbianchettato per decreto Napoli, immaginando che la lava alle viste dei primi quartieri del capoluogo si fermasse e rispettosamente deviasse”.
Siamo alla Federico II, facoltà di scienze della terra, nella stanza del geologo Benedetto De Vivo. “Stanno costruendo l’ospedale del mare, quello che dovrebbe dare un po’ di respiro e di salute nel punto esatto dove – nel caso dovesse esserci l’eruzione – il flusso piroclastico, queste tremende bombe di terra e cenere, si riverserà. Noi scienziati sappiamo poco dei tempi di eruzione. Potranno passare secoli e secoli oppure può accadere domani. Ma siamo certi dei danni che la prova del fuoco farebbe. E ce ne freghiamo. Si può essere più sciagurati?”. Le pendici vesuviane sono il set perfetto dell’irragionevolezza: case e vicoli ovunque, ostruzioni ovunque. Qui prende forma planetaria la teoria dell’irrilevanza della verità. C’è il rischio che la tua casa venga mangiata dal fuoco ma tu la edifichi. C’è la zona rossa e nessuno la rispetta. C’era la legge per lo svuotamento di questa enorme sacca umana (si chiamava VesuVia) ma non è stata rifinanziata. L’assessore regionale alla Protezione civile Edoardo Cosenza ha messo in moto piccole pratiche di buon senso. Innanzitutto allargando l’area a rischio. Adesso sono compresi anche i quartieri orientali di Napoli e le persone in pericolo sono passate da 550 mila a 700mila. Una città grande come Bologna e tutta la Romagna, Bari e il Salento. Una massa enorme, una pressione demografica ingestibile come hanno dimostrato due test di evacuazione.
“Il vulcano ci dà il tempo di prepararci, ma lo ignoriamo” – Nel 2006 fu il Mesimex e doveva testare la capacità di trasporto e svuotamento. Il rischio enorme è che la paura, da sola, mieta vittime in misura catastrofica. Le vie di fuga non esistono. Solo nel 2015, sempre che i finanziamenti esistano, sarà completato con lo svincolo di Angri l’ampliamento dell’autostrada. Tutto qua, o quasi. Al pericolo della lava che inonda si aggiunge un secondo e altrettanto mortale rischio: che migliaia di edifici nelle zone contigue possano collassare per via del peso della cenere che si depositerà sui terrazzi di copertura. Il piano della salvezza è un misterioso mix di buone ma velleitarie intenzioni e cattive pratiche. Ogni regione è gemellata con un Comune e dovrebbe ricevere i suoi abitanti incolonnati su bus e auto (solo le vie autostradali sono ritenute idonee per la fuga). Dovrebbero venirci a salvare dall’Europa (Francia, Spagna, Portogallo e Svezia gli Stati membri impegnati nel primo soccorso). “Il Vesuvio ci dà il tempo di prepararci e noi non lo facciamo”, ricorda il geologo De Vivo. Napoli, scriveva il tedesco Sohnretel, è la capitale della filosofia del rotto. Tutto è ammaccato, il futuro è indefinito e la ragione scriteriata. Si salvi chi può.
da Il Fatto Quotidiano del 9 novembre 2013