Sono molto affezionata alla sezione Cervelli in fuga. Non parla soltanto di ricercatori e accademici che, paralizzati dal sistema italiano, hanno dovuto cercare opportunità all’estero, le hanno trovate e in molti casi sono rimasti lontani dal loro Paese. Racconta le storie manager, fioristi, infermieri, professori universitari, giornalisti e fotografi. Per noi del Fatto un “cervello in fuga” è un italiano che, sulla spinta di delusioni, sogni o aspettative, ha deciso di fare i bagagli. Eppure, a fronte di qualcuno che ha trovato la strada e forse la sua felicità, ad ogni articolo ci sono anche valanghe di commenti invidiosi. Niente di costruttivo. Altro che il bello della rete.
Lettori che si fermano solo al titolo – o forse anche meno – e che, a prescindere dal contenuto, attaccano chi ha deciso di fare una scelta coraggiosa. “Ah vabbè, allora siamo tutti cervelli“, scrive qualcuno, se raccontiamo la storia di chi non è uno scienziato. Inutile dire che ognuno è libero di esprimere la propria opinione, ma il punto non è questo. Leggere i commenti ai pezzi di questa sezione fa capire quanta voglia ci sia di andarsene da un Paese che raramente offre buone opportunità di lavoro, stipendio, carriera. Con tutto quello che ne deriva. Come, ad esempio, la possibilità di costruirsi una famiglia, magari prima dei 40 anni.
La giornalista che lascia il posto fisso al Corriere per andare in Sud Sudan sarà certamente figlia di papà (“chissà quanto le passa il papi tutti i mesi per fare l’alternativa?”) e soprattutto non c’entra niente, secondo alcuni, con i veri – ma chi sono? – cervelli in fuga (“questa rubrica dovrebbe ospitare storie di persone costrette ad emigrare per potere lavorare nel settore in cui si sono laureate o specializzate”). L’architetto milanese che si trasferisce in Malesia ha la colpa di dire – dopo avere raccontato la sua esperienza, il lavoro, lo stile di vita nel Paese di arrivo – di avere visto più Ferrari a Kuala Lumpur che in Italia (“Una persona che giudica la qualità della vita dal numero delle Ferrari, è bene che sia emigrata”, “bell’esempio che date alla gioventù. Mentre in Italia si cerca di limitare il consumo di territorio per evitare catastrofi come quella sarda, voi cantate le lodi del consumo”).
E ancora, il farmacista lombardo che, dopo anni di riflessione, si trasferisce col marito alle Antille è solo l’ennesimo privilegiato (“Canada, Antille… se eri disoccupato stavi parecchi a casa. Vergognati”), almeno quanto i due di Roma che se ne vanno a Montreal, dove costruirsi una famiglia sarà più semplice (“due che hanno un lavoro e per sfizio si trasferiscono in Canada dal padre di uno dei due!!!…Boh…Estiqaatsi!“). Poi c’è l’ironia sull’infermiere emigrato a Vienna (“il prossimo cervello in fuga: ‘spazzino a Kathmandu, in Italia c’è troppa pulizia’”), il jazzista trapiantato a New York che ha approfittato dello spazio sul sito per fare pubblicità ai colleghi italiani che lavorano con lui (“vabbè, ha fatto un favore ai suoi amici nominandoli. Si è fatto un favore con l’articolo, ma ci sono molti altri italiani a Ny, e molto molto bravi”). E guai se si tocca il tasto stipendi. Sia mai che un italiano all’estero si macchi del peccato mortale di una buona paga. Nella migliore delle ipotesi, sarà stato raccomandato da qualcuno.
Forza, se ne avete voglia e ve la sentite, fate le valigie e andatevene. Se rimanete, però, soddisfatti o scontenti che siate, che senso ha infangare l’esperienza di qualcun altro? Aveva ragione Morrissey quando cantava “We Hate It When Our Friends Become Successful“. Succede anche quando non si tratta di amici, forse. In ogni caso, in bocca al lupo a tutti gli italiani all’estero (che per noi sono cervelli in fuga).