Province addio, lunga vita alle province d’Italia. E’ partita oggi alla Camera la discussione generale sul disegno di legge che dovrebbe abolirle, fondere i comuni e istituire le città metropolitane. Ma come d’incanto si è subito arenata. Annuncia il voto contrario Elena Centemero (Fi) che si dimette dall’incarico di relatore per la maggioranza suggellando una volta di più i nuovi squilibri del governo dopo lo strappo dei berlusconiani. Ma arriva anche il no della Lega e perfino Ncd nicchia. Nessuna apertura da M5S che parla apertamente di “farsa e finta abolizione”. Parla di “requiem” della riforma Arcangelo Sannicandro di Sel. Insomma, tutti contro il disegno di legge messo a punto dal ministro Graziano Delrio che doveva essere il primo passo verso la cancellazione, una misura transitoria in attesa di una più corposa modifica al titolo V della Costituzione. Restano col cerino in mano il Pd e il governo mentre tutta la materia sembra ormai destinata a finire sull’altro binario, non meno incerto, del prossimo, futuribile, disegno di riforma.
Qualcuno, distratto, potrebbe restare sorpreso: ma come, se ne parla da anni e siamo ancora all’inizio della discussione e con la riforma ancora in mezzo alle onde? E’ proprio così. Nonostante i fiumi d’inchiostro spesi e le promesse degli ultimi governi. Quello Letta si era dato l’obiettivo di chiudere la discussione entro la fine di gennaio. E però non si tratterà comunque della svolta auspicata, di abolizione vera e propria: per quella, questo il punto politico al momento, ci vorrà un disegno di legge costituzionale che è ancora ai blocchi di partenza. Per il momento – se l’iter andrà avanti – la riforma riduce le loro funzioni, le rende enti di “area vasta” (così dice il gergo tecnico) con funzioni di coordinamento. I consiglieri provinciali non verrano più eletti più direttamente dai cittadini, ma fra i Comuni stessi. Di più, per ora, non si poteva. Raggiungere un testo condiviso in commissione, sostiene chi è intervenuto stamattina, è stato già un calvario. Cambia qui, ritocca di là, ogni partito aveva ottime ragioni per chiedere questa o quella modifica.
Di fatto solo oggi la discussione è iniziata e siamo, come al solito, alla corsa in salita e contro il tempo: nel 2014 54 amministrazioni dovrebbero andare al voto e se non si trova la quadra all’orizzonte si profila il gran valzer di poltrone in vista dell’azzeramento (e successiva ricomposizione) di un intero livello di potere locale. E tuttavia continua a remare contro il partito trasversale di chi – con numeri, tabelle e obiezioni di merito e metodo – è deciso a impallinare il provvedimento. Chi perché convinto che il giro di vite delle province non porterà i risparmi promessi, visto che personale e strutture saranno prontamente riassorbiti. Chi, come Dalila Nesci (M5S), perché nella formulazione del ddl Delrio intravede un pallido ricordo delle promesse di abolizione. E accusa allora il governo di aver messo in scena l’ennesima farsa, destinata per altro a incagliarsi su nuovi profili di incostituzionalità e di impossibilità contabile.
La Corte dei Conti, infatti, meno di un mese aveva bocciato il testo e ammonito circa il rischio di generare altri costi per la finanza pubblica e a un ulteriore caos tra livelli diversi di governo. E in effetti da tre città metropolitane si è arrivati a 10, poi 15. Dieci sono quelle decretate dal Parlamento, le altre cinque sono quelle assegnate alle Regioni a Statuto speciale. La sola Sicilia ne vuole tre: Palermo, Catania e Messina. Un altolà che rafforza sul fronte contabile il niet sul fronte normativo della Corte Costituzionale che, a suo tempo col governo Monti, aveva già cassato la norma “Salva Italia” che privava le Province di funzioni e di rango elettivo. La Corte aveva contestato la decretazione d’urgenza per questa materia. E così, tra veti incrociati e aporie costituzionali, ha preso quota la soluzione intermedia del DDl Delrio, insieme al giro “lungo” della riforma.
I nodi sono saltati fuori tutti oggi, all’avvio della discussione. Qualche tentativo di tirare in ballo irriducibili questioni costituzionali e requisitorie in difesa dell’autonomia. Paolo Russo di Forza Italia, il partito che con Brunetta (a parole) soffiava sul fuoco per ardere le bandiere delle province urtandosi con l’alleato leghista, oggi dice al governo “io le abolirei, ma fermatevi. Vi siete cimentati in un gioco dell’oca che ci riporta al punto di partenza”. Sotto accusa il tentativo di salvarle provvisoriamente. “Non le cancellate ma ne fate un ente elettivo di secondo livello, senza ridurre le spese e facendo coesistere gli enti. Fermatevi”. Stesso discorso fa Ncd riproponendo la posizione di Angelino Alfano che a Padova aveva reso così evidente la vera posta in gioco: “Non è che aboliamo le Province per creare degli enti di secondo livello in cui vince a tavolino la sinistra e non accetteremo mai di mandare a casa i presidenti di centrodestra nelle aree metropolitane per sostituirli con i sindaci dei relativi capoluoghi, tutti di sinistra”.
Alla fine se ne va contrariato il ministro Delrio. Aveva ottenuto un emendamento alla legge di Stabilità che allunga la vita ai consigli in scadenza fino al 30 giugno, nella speranza nel frattempo di approvare almeno il disegno di legge ordinario che secondo i suoi calcoli avrebbe iniziato a produrre risparmi per 553 mln dalle spese correnti e 2,5 dall’acquisto di beni e servizi. Subito era scattata la reazione del presidente dell’Unione delle Province, il torinese Antonio Saitta, che ha definito «senza fondamento giuridico» la decisione del governo. “Se non chiudiamo l’iter di approvazione della legge entro la fine dell’anno”, ammette Delrio, rischiamo di ripartire di nuovo da zero. Il conto alla rovescia è dunque iniziato. Di nuovo.
Politica
Abolizione Province, ddl subito affossato. Pd e governo col cerino in mano
Approda in aula la discussione del testo del ministro Delrio sulle "funzioni di area vasta" che prelude alla cancellazione. E subito viene impallinato da Forza Italia con le dimissioni della stessa relatrice di maggioranza. No anche dall'opposizione di Lega, M5S. Perfino Ncd solleva dubbi e i democratici rischiano di restare soli. Alla fine la promessa slitta ancora, mentre incombe il rinnovo di 54 amministrazioni. Che rischiamo di dover mantenere per altri cinque anni
Province addio, lunga vita alle province d’Italia. E’ partita oggi alla Camera la discussione generale sul disegno di legge che dovrebbe abolirle, fondere i comuni e istituire le città metropolitane. Ma come d’incanto si è subito arenata. Annuncia il voto contrario Elena Centemero (Fi) che si dimette dall’incarico di relatore per la maggioranza suggellando una volta di più i nuovi squilibri del governo dopo lo strappo dei berlusconiani. Ma arriva anche il no della Lega e perfino Ncd nicchia. Nessuna apertura da M5S che parla apertamente di “farsa e finta abolizione”. Parla di “requiem” della riforma Arcangelo Sannicandro di Sel. Insomma, tutti contro il disegno di legge messo a punto dal ministro Graziano Delrio che doveva essere il primo passo verso la cancellazione, una misura transitoria in attesa di una più corposa modifica al titolo V della Costituzione. Restano col cerino in mano il Pd e il governo mentre tutta la materia sembra ormai destinata a finire sull’altro binario, non meno incerto, del prossimo, futuribile, disegno di riforma.
Qualcuno, distratto, potrebbe restare sorpreso: ma come, se ne parla da anni e siamo ancora all’inizio della discussione e con la riforma ancora in mezzo alle onde? E’ proprio così. Nonostante i fiumi d’inchiostro spesi e le promesse degli ultimi governi. Quello Letta si era dato l’obiettivo di chiudere la discussione entro la fine di gennaio. E però non si tratterà comunque della svolta auspicata, di abolizione vera e propria: per quella, questo il punto politico al momento, ci vorrà un disegno di legge costituzionale che è ancora ai blocchi di partenza. Per il momento – se l’iter andrà avanti – la riforma riduce le loro funzioni, le rende enti di “area vasta” (così dice il gergo tecnico) con funzioni di coordinamento. I consiglieri provinciali non verrano più eletti più direttamente dai cittadini, ma fra i Comuni stessi. Di più, per ora, non si poteva. Raggiungere un testo condiviso in commissione, sostiene chi è intervenuto stamattina, è stato già un calvario. Cambia qui, ritocca di là, ogni partito aveva ottime ragioni per chiedere questa o quella modifica.
Di fatto solo oggi la discussione è iniziata e siamo, come al solito, alla corsa in salita e contro il tempo: nel 2014 54 amministrazioni dovrebbero andare al voto e se non si trova la quadra all’orizzonte si profila il gran valzer di poltrone in vista dell’azzeramento (e successiva ricomposizione) di un intero livello di potere locale. E tuttavia continua a remare contro il partito trasversale di chi – con numeri, tabelle e obiezioni di merito e metodo – è deciso a impallinare il provvedimento. Chi perché convinto che il giro di vite delle province non porterà i risparmi promessi, visto che personale e strutture saranno prontamente riassorbiti. Chi, come Dalila Nesci (M5S), perché nella formulazione del ddl Delrio intravede un pallido ricordo delle promesse di abolizione. E accusa allora il governo di aver messo in scena l’ennesima farsa, destinata per altro a incagliarsi su nuovi profili di incostituzionalità e di impossibilità contabile.
La Corte dei Conti, infatti, meno di un mese aveva bocciato il testo e ammonito circa il rischio di generare altri costi per la finanza pubblica e a un ulteriore caos tra livelli diversi di governo. E in effetti da tre città metropolitane si è arrivati a 10, poi 15. Dieci sono quelle decretate dal Parlamento, le altre cinque sono quelle assegnate alle Regioni a Statuto speciale. La sola Sicilia ne vuole tre: Palermo, Catania e Messina. Un altolà che rafforza sul fronte contabile il niet sul fronte normativo della Corte Costituzionale che, a suo tempo col governo Monti, aveva già cassato la norma “Salva Italia” che privava le Province di funzioni e di rango elettivo. La Corte aveva contestato la decretazione d’urgenza per questa materia. E così, tra veti incrociati e aporie costituzionali, ha preso quota la soluzione intermedia del DDl Delrio, insieme al giro “lungo” della riforma.
I nodi sono saltati fuori tutti oggi, all’avvio della discussione. Qualche tentativo di tirare in ballo irriducibili questioni costituzionali e requisitorie in difesa dell’autonomia. Paolo Russo di Forza Italia, il partito che con Brunetta (a parole) soffiava sul fuoco per ardere le bandiere delle province urtandosi con l’alleato leghista, oggi dice al governo “io le abolirei, ma fermatevi. Vi siete cimentati in un gioco dell’oca che ci riporta al punto di partenza”. Sotto accusa il tentativo di salvarle provvisoriamente. “Non le cancellate ma ne fate un ente elettivo di secondo livello, senza ridurre le spese e facendo coesistere gli enti. Fermatevi”. Stesso discorso fa Ncd riproponendo la posizione di Angelino Alfano che a Padova aveva reso così evidente la vera posta in gioco: “Non è che aboliamo le Province per creare degli enti di secondo livello in cui vince a tavolino la sinistra e non accetteremo mai di mandare a casa i presidenti di centrodestra nelle aree metropolitane per sostituirli con i sindaci dei relativi capoluoghi, tutti di sinistra”.
Alla fine se ne va contrariato il ministro Delrio. Aveva ottenuto un emendamento alla legge di Stabilità che allunga la vita ai consigli in scadenza fino al 30 giugno, nella speranza nel frattempo di approvare almeno il disegno di legge ordinario che secondo i suoi calcoli avrebbe iniziato a produrre risparmi per 553 mln dalle spese correnti e 2,5 dall’acquisto di beni e servizi. Subito era scattata la reazione del presidente dell’Unione delle Province, il torinese Antonio Saitta, che ha definito «senza fondamento giuridico» la decisione del governo. “Se non chiudiamo l’iter di approvazione della legge entro la fine dell’anno”, ammette Delrio, rischiamo di ripartire di nuovo da zero. Il conto alla rovescia è dunque iniziato. Di nuovo.
Articolo Precedente
Primarie Pd, Cuperlo-Renzi-Civati: non lo so se ci credo ma ci spero
Articolo Successivo
Legge elettorale, il Porcellum resiste. Per salvare stabilità di governo e partiti
Gentile lettore, la pubblicazione dei commenti è sospesa dalle 20 alle 9, i commenti per ogni articolo saranno chiusi dopo 72 ore, il massimo di caratteri consentito per ogni messaggio è di 1.500 e ogni utente può postare al massimo 150 commenti alla settimana. Abbiamo deciso di impostare questi limiti per migliorare la qualità del dibattito. È necessario attenersi Termini e Condizioni di utilizzo del sito (in particolare punti 3 e 5): evitare gli insulti, le accuse senza fondamento e mantenersi in tema con la discussione. I commenti saranno pubblicati dopo essere stati letti e approvati, ad eccezione di quelli pubblicati dagli utenti in white list (vedere il punto 3 della nostra policy). Infine non è consentito accedere al servizio tramite account multipli. Vi preghiamo di segnalare eventuali problemi tecnici al nostro supporto tecnico La Redazione
Politica
Riarmo, il Pd si spacca, Schlein: ‘Restiamo contrari’. Fronda dem: ‘Serve un confronto’. M5s compatto: ‘Noi coerenti’. Destra divisa: FdI e FI per il sì, Lega vota no
Zonaeuro
Dall’Ue via libera al riarmo di von der Leyen e critiche a Trump: “Bisogna inviare più armi a Kiev”
Politica
I vescovi: “No ai tamburi di guerra, l’Europa recuperi una voce di pace. Investire sullo sviluppo sostenibile”
Palermo, 12 mar. (Adnkronos) - "Affronterò il processo con la massima serenità e con la consapevolezza di poter dimostrare la correttezza del mio operato, avendo sempre agito nel pieno rispetto del regolamento previsto dall’Assemblea Regionale Siciliana. Non ho mai, nella mia vita, sottratto un solo centesimo in modo indebito e confido che nel corso del giudizio emergerà la verità, restituendo chiarezza e trasparenza alla mia posizione. Resto fiducioso nella giustizia e determinato a far valere le mie ragioni con il rispetto e la serietà che ho sempre riservato alle istituzioni". Così Gianfranco Miccichè, rinviato a giudizio per l'uso dell'auto blu, commenta il processo che partirà a luglio. "Sono però amareggiato da quanto la stampa riporta sul fatto che, secondo il pm avrei arraffato quanto più possibile- dice - Nella mia vita non ho mai arraffato alcun che e su questo pretendo rispetto da parte di tutti".
Palermo, 12 mar. (Adnkronos) - L'ex Presidente dell'Assemblea regionale siciliana Gianfranco Miccichè è stato rinviato a giudizio con l'accuaa di peculato e concorso in truffa aggravata il. La prima udienza del processo si terrà il 7 luglio davanti alla terza sezione del tribunale di Palermo. Secondo l'accusa il politico, ex viceministro dell'Economia, avrebbe usato l'auto blu in dotazione, in quanto ex Presidente dell'Ars, per fini personali. In particolare avrebbe usato, non per fini istituzionali, l’Audi della Regione, per una trentina di volte, tra marzo e novembre del 2023, anche per fare visite mediche, e persino per andare dal veterinario con il gatto. Avrebbe fatto salire sull'auto anche componenti della sua segreteria e familiari.
Il suo ex autista, Maurizio Messina, che ha scelto il rito abbreviato, è stato invece condannato dal giudice per l’udienza preliminare Marco Gaeta a un anno e mezzo di carcere per truffa, più sei mesi con l'accusa di avere sottratto la somma che gli era stata sequestrata durante le indagini.
Milano, 12 mar. (Adnkronos) - La Corte di Assise di Appello di Milano ha assolto, ribaltando la sentenza a sette anni inflitta in primo grado, Salvatore Pace per il concorso nell'omicidio di Umberto Mormile, l'educatore del carcere di Opera ammazzato l'11 aprile 1990. Il delitto fu rivendicato dalla Falange Armata, organizzazione terroristica sulla quale gravitavano mafiosi, 'ndranghetista e componenti dei servizi segreti deviati. Mormile, 34 anni, venne assassinato a Carpiano, nel Milanese, mentre andava al lavoro, quando due individui in sella a una moto esplosero contro di lui sei colpi di pistola. Secondo l'accusa, Pace, 69 anni, diventato collaboratore di giustizia, si sarebbe messo a disposizione dei mandanti dell'omicidio. "Attendo di leggere le motivazioni" è il commento dell'avvocato Fabio Rapici, legale di alcuni dei familiari della vittima.
Roma, 12 mar (Adnkronos) - La Difesa europea non salva il Pd. Anzi, lo spacca. A Strasburgo, al momento del voto sul piano ReArmEu, gli europarlamentari dem si sono divisi: 10 favorevoli e 11 astenuti. Non un banale testa a testa, che già sarebbe una notizia, ma una spaccatura politica. La prima, almeno così evidente, nella gestione di Elly Schlein. I riformisti dem, infatti, si sono tutti schierati per il sì. Mentre sino all'ultimo istante il capo delegazione Nicola Zingaretti ha lavorato per portare il gruppo sull'astensione in modo da disinnescare ogni tentazione a votare no. Ma la frattura non si è ricomposta.
Dopo il voto, la segretaria dem ha tenuto il punto, confermando le "molte critiche" avanzate su ReArmEu: "Quel piano va cambiato" e per farlo "continueremo a impegnarci ogni giorno", ha detto tra le altre cose. Ma l'onda del voto sulla Difesa Ue è arrivata fino al Nazareno, aprendo una discussione interna al partito in cui è riemersa anche la parola 'magica' Congresso. La foto di Strasburgo, del resto, è netta. Per il sì si sono schierati Stefano Bonaccini (il presidente del partito), Antonio Decaro, Giorgio Gori, Elisabetta Gualmini, Giuseppe Lupo, Pierfrancesco Maran, Alessandra Moretti, Pina Picierno, Irene Tinagli, Raffaele Topo.
Tra gli astenuti Zingaretti, Lucia Annunziata, Brando Benifei, Annalisa Corrado, Camilla Laureti, Dario Nardella, Matteo Ricci, Sandro Ruotolo, Cecilia Strada, Marco Tarquinio, Alessandro Zan. Dalle tabelle dell'aula emerge tra l'altro che nel gruppo S&D gli unici ad astenersi sono stati gli italiani più un bulgaro, un irlandese e uno sloveno. Per non farsi mancare nulla, c'è stato anche il 'giallo' Annunziata, inizialmente conteggiata tra i sì e poi conteggiata come astenuta.
(Adnkronos) - Mentre a Strasburgo i più maliziosi hanno enfatizzato non solo la presenza di Nardella tra gli astenuti, ma soprattutto quella di Strada e Tarquinio: apertamente contrari al Piano Ue, alla vigilia erano dati certi tra i no. "C'è stato l'aiutino per non far vincere il sì", ha valutato un eurodeputato dem. Lo stesso Tarquinio, del resto, a Un giorno da pecora ha ammesso: "Se avessi votato no sarebbe mancato quel po' di più che ha consentito alla delegazione Pd di avere la maggioranza pro Elly Schlein".
"E' stata sconfitta la linea dell'astensione? E' stato sconfitto il no, perché si partiva dal no", è stata la valutazione di Lia Quartapelle. La deputata dem è stata tra quelli che hanno subito chiesto l'apertura di un confronto interno. "Dobbiamo dimostrarci all'altezza. Il Pd, un grande partito, deve argomentare dove vuole stare con una discussione che sino ad oggi non c'è stata", ha spiegato. Sulla stessa linea Piero Fassino e anche Marianna Madia: "Abbiamo la necessità di discutere e capire. Non possiamo fare tutto questo stando zitti o con un mezzo voto. Congresso o Direzione? Va bene tutto, basta che ci sia una discussione", ha detto la deputata.
Ai riformisti ha risposto Laura Boldrini: "Mi sarei aspettata che il gruppo del Pd al Parlamento europeo votasse compatto sull'astensione, che è la strada trovata dalla segretaria Schlein. Non è il momento di alimentare divisioni". Ma anche nell'area di maggioranza interna non è mancata la chiamata al confronto: "E' giusto che ci sia una discussione seria. E' una responsabilità che abbiamo tutti ed è interesse della segretaria, che io sostengo, che questa discussione si faccia nelle forme e con la rapidità necessarie", ha detto Gianni Cuperlo. Mentre è stato Andrea Orlando a chiedere un Congresso tematico: "Potrebbe essere utile anche per portare la discussione fuori dal solo gruppo dirigente" e per "chiarirsi le idee".
Milano, 12 mar. (Adnkronos) - "Morte naturale per infarto". Sono questi i primi risultati dell'autopsia per Carmine Gallo, l'ex super poliziotto protagonista della lotta contro la criminalità organizzata a Milano e ai domiciliari dallo scorso ottobre per l'inchiesta Equalize sui presunti dossier illeciti, morto domenica nella sua abitazione a Garbagnate Milanese. Si tratta dei primi riscontri dei medici legali, poi "arriveranno i tossicologici" chiesti in via precauzionale per escludere qualsiasi altra causa.
Roma, 12 mar (Adnkronos) - "Il libro di Follini rappresenta la foto di un mondo rovesciato rispetto al presente, un’America rovesciata, ieri prevaleva il senso della misura e il ragionamento, oggi prevale il populismo”. Lo ha detto il deputato del Pd Stefano Graziano presentando in conferenza stampa a Montecitorio il libro di Marco Follini 'Beneficio d’inventario'.
"Centrale è la parte che racconta della vita politica all’epoca del padre di Marco Follini, Vittorio, e dei leader politici del tempo da Francesco Cossiga, ad Aldo Moro, passando per Marco Pannella. Non tutti avevano la stessa idea politica ma erano tutti uniti nella forza di voler difendere la democrazia, una democrazia ottenuta con lotte, sangue, catastrofi e quindi seppur lontani politicamente, erano uniti dal dialogo. Una differenza abissale con l’Italia di oggi pericolosamente in mano ai sovranisti, dove tutto è concepito fuorché il dialogo. Forse questo abisso non è solo italiano ma sta prevalendo in tutto l’Occidente e la cosa è abbastanza preoccupante”, ha aggiunto Graziano.
Milano, 12 mar. (Adnkronos) - "La manovra repentina, improvvisa e del tutto imprevedibile, frutto certamente di una decisione di decimi di secondo attuata dal conducente del motoveicolo TMax non ha consentito al conducente del veicolo Giulietta di poter attuare alcuna manovra difensiva efficace". E' quanto sostiene la consulenza cinematica disposta dalla Procura di Milano e affidata all'ingegnere Domenico Romaniello. La relazione attribuisce la responsabilità dell'incidente a Fares Bouzidi, già indagato per omicidio stradale, l’amico di Ramy Elgaml che guidava lo scooter. Quando lo scooter da via Ripamonti svolta a sinistra verso via Quaranta, "con una deviazione improvvisa", per il consulente Fares imprime "una correzione di rotta verso destra", in direzione del marciapiede, e il carabiniere alla guida "non poteva certamente prevedere tale pericolosissima manovra e nulla ha potuto fare per evitare tale contatto, in ragione della impossibilità di poter attuare sia una correzione di rotta, sia una frenata efficace nello spazio a disposizione".
Non solo: il militare alla guida "non avrebbe altresì potuto neanche sterzare verso destra per la presenza del pedone (il testimone che riprende la scena con il cellulare) che per il conducente dell’autovettura è stato chiaramente percepito con la vista periferica" spiega l'ingegnere che ha realizzato la consulenza ricostruendo le condizioni di visibilità e velocità dell'inseguimento avvenuto la notte del 24 novembre scorso. Quella che mette in atto il carabiniere ora indagato per omicidio stradale (per lui si va verso la richiesta di archiviazione) è "una manovra difensiva obbligata": se lo scooter guidato da Fares avrebbe mantenuto la traiettoria 'naturale' chi guidava la Giulietta "non avrebbe sostanzialmente avuto problemi a mantenere il proprio veicolo iscritto nella curva da percorrere per la svolta a sinistra".
Quando Fares imposta la curva verso via Quaranta il T Max viaggia a una velocità di quasi 55 chilometri l'ora, quando il motociclo finisce la sua corsa contro il palo semaforico l'urto avviene a circa 33 chilometri orari. Per il consulente incaricato dalla procura la macchina che insegue, per evitare l'urto, "avrebbe dovuto disporre di uno spazio complessivo per l’arresto di circa 24 metri", mentre "il conducente aveva a disposizione circa 12 metri soltanto prima di giungere all’urto contro il palo semaforico".