La storia del secondo governo Prodi ha un doppiofondo segreto. In quei 722 giorni di calvario, il ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa – di gran lunga il miglior elemento della compagine – matura la convinzione che Napolitano abbia fatto di tutto per indebolire, logorare, talora boicottare l’esecutivo dell’Unione. E lo scrive in alcune pagine del suo diario che l’autore di questo libro – in alcuni colloqui avuti con lui nella sua casa romana fra il 2009 e il 2010 fino a poche settimane prima della sua improvvisa scomparsa (il 18 dicembre 2010) – ha avuto il privilegio di poter leggere, discutere e annotare nelle parti più significative e attuali. Ma ha deciso di non riportarle testualmente per rispetto della volontà dei familiari, che decideranno liberamente se e quando rendere pubblici quegli scritti.
Siamo nell’autunno del 2006. Dopo la turbolenta estate dell’indulto, a fine agosto il governo ha inviato truppe italiane in Libano per la missione Unifil, mentre è iniziato il ritiro dei militari dall’Iraq. Il 7 settembre il dipietrista Sergio De Gregorio (corrotto – come confesserà lui stesso nel 2012 – da Berlusconi) è passato al centrodestra, privando l’Unione del suo unico voto di scarto al Senato e rendendo decisivi i senatori a vita (…). In questo clima – annota il ministro – il 18 ottobre Napolitano invita a pranzo Prodi, lo stesso Padoa-Schioppa ed Enrico Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. E lì fa il “pompiere incendiario”, lo “stabilizzatore destabilizzante”, come lo definisce il titolare dell’Economia. Paventa il “rischio” che Prodi ponga la fiducia. Si fa portavoce di tutte le critiche al governo. Insomma – ricorda Padoa-Schioppa – “soffia sul fuoco anziché spegnerlo”. L’indomani i giornali, opportunamente sensibilizzati, scrivono che Napolitano ha “bacchettato” Prodi e il suo ministro. Il 20 dicembre, nella cerimonia al Quirinale per gli auguri natalizi alle alte cariche dello Stato, Napolitano parla della legge finanziaria – ricorda Padoa-Schioppa – in chiave quasi esclusivamente critica su due punti: la dimensione “abnorme” del testo della manovra e del maxiemendamento e l’uso della fiducia. Segue il solito monito per “soluzioni condivise con l’opposizione”.
Il Quirinale al lavoro contro il centrosinistra. Il 21 febbraio 2007, dopo meno di un anno di vita, il governo Prodi è già in crisi. La maggioranza, divisa sulle coppie di fatto, sul rifinanziamento della missione militare in Afghanistan, sul raddoppio della base americana di Vicenza, “va sotto” al Senato sulla risoluzione che deve approvare la politica estera del ministro D’Alema: soltanto 158 Sì (su un quorum di 160) contro 136 No e 24 astenuti (decisivi i neocomunisti Fernando Rossi e Franco Turigliatto). Prodi sale subito al Quirinale per rimettere il mandato nelle mani di Napolitano. L’indomani – annota Padoa-Schioppa nel suo diario – Prodi torna al Quirinale e lì Napolitano chiede garanzie preventive sui “numeri al Senato” in vista della fiducia e del voto sull’Afghanistan. Pare che il capo dello Stato non gradisca una maggioranza che si regga sui senatori a vita, come se questi fossero figli di un dio minore. Il ministro dell’Economia è sconcertato: il voto si fa in Parlamento, non al Quirinale, e sarebbe ora di finirla con il malvezzo delle “crisi extraparlamentari” da Prima Repubblica.
Il 24 febbraio, previe consultazioni informali con i partiti, Napolitano respinge le dimissioni di Prodi e lo rinvia alle Camere per il voto di fiducia. Nessuno – a parte chi gli parla in privato – sa che il presidente sta segretamente lavorando con personali “esplorazioni” a un’altra maggioranza, al momento però invano. Quale maggioranza? Il solito inciucio di larghe – o almeno più larghe – intese. Una posizione che Padoa-Schioppa definisce “inquietante”. Così come il comunicato del Colle, che pretende una maggioranza “politica”: un altro cedimento alla tesi del centrodestra, che vorrebbe escludere i senatori a vita dal voto. Il che, ricorda l’ex ministro, induce il povero Ciampi a disertare le sedute del Senato ogni volta che è in gioco la sopravvivenza del governo (invece Rita Levi-Montalcini, spesso volgarmente insultata dai banchi della destra, è quasi sempre presente, e votante).
Il 28 febbraio il governo ottiene la fiducia a Palazzo Madama (162 Sì, 157 No), anche grazie al passaggio di Marco Follini dall’Udc al centrosinistra. Il 3 marzo si replica a Montecitorio (342 Sì, 253 No e 2 astenuti). La crisi è rientrata. Almeno per ora. Qualche mese di relativa calma. Poi il 12 luglio Napolitano torna a polemizzare con Prodi e Padoa-Schioppa a proposito di un emendamento inserito dal governo in un decreto già approvato e in fase di conversione in legge in Parlamento. Il presidente rivendica per sé un diritto di veto sul potere legislativo molto discutibile, almeno per il ministro dell’Economia. Che non riesce a comprendere come possa il capo dello Stato pretendere di sindacare sull’urgenza dei provvedimenti del governo, visto che questa è una valutazione squisitamente “politica”, che spetta al Consiglio dei ministri e al Parlamento, non al capo dello Stato. Il che vale, a maggior ragione, per il giudizio sugli emendamenti, governativi e parlamentari: di che si impiccia Napolitano?
Il braccio di ferro fra Palazzo Chigi e ministero dell’Economia da una parte e Quirinale dall’altra, pur non trapelando quasi mai sulla stampa, prosegue sotterraneamente su altre questioni di fondo. Padoa-Schioppa continua a pensare che Napolitano si assuma compiti non suoi, debordando dai suoi poteri costituzionali. Come quando considera antidemocratico qualsiasi atto e riforma del governo che non sia stato preventivamente “concordato” con l’opposizione. Cioè con Berlusconi. È una malintesa forma di garanzia presidenziale all’opposizione con l’ossessiva ricerca di una “pacificazione”. Che però – osserva l’ex ministro – “porta il presidente a chiedere molto di più alla maggioranza che all’opposizione”, visto che “le prevaricazioni vengono dall’opposizione, non dalla maggioranza”. Padoa-Schioppa si domanda perché Napolitano faccia così. E si risponde che forse è perché è stato eletto solo dal centrosinistra. O forse perché è divorato da un’ansia di “popolarità”: insomma vorrebbe essere come Pertini, o almeno come Ciampi. Ma Pertini e Ciampi erano popolari fra la gente, mentre l’attuale presidente cerca consensi soprattutto nel Palazzo, tra i partiti, da vero “professionista della politica”. Inoltre, la lunga appartenenza a un partito di opposizione, il Pci, lo porta a pensare che le opposizioni abbiano sempre una sorta di “diritto di veto” sulle scelte della maggioranza.
“Un disegno politico da Prima Repubblica anti-bipolarismo”. Ma soprattutto – ripete spesso Padoa-Schioppa nei nostri colloqui – “Napolitano detesta il bipolarismo e persegue un suo disegno politico”, quello svelato nella breve crisi del febbraio 2007: quello di un governo di larghe intese che eliminerebbe l’alternanza fra destra e sinistra e scipperebbe agli elettori il diritto di scegliere da chi essere governati, per rimetterlo nelle mani delle segreterie dei partiti. Come nella Prima Repubblica, che rimane l’unico orizzonte di Napolitano. Ma anche – osserva malizioso l’ex ministro – “come in Unione Sovietica”: “il governo lo sceglie il partito (o i partiti) e non il popolo”. Peccato che la Costituzione dica tutt’altro. E che ciò metta in pericolo la democrazia italiana, specie se all’opposizione c’è Berlusconi. Che, come spesso è accaduto nella storia della conquista del potere dei partiti comunisti nel XX secolo, punta a entrare in larghe coalizioni da posizioni di minoranza, per poi prendersi la maggioranza.
Il 16 luglio dal ministero dell’Economia parte per il Quirinale una nota critica sulla posizione di Napolitano in materia di decreti urgenti e di emendamenti durante l’iter parlamentare (…) “perché introduce di fatto un filtro più fine di quello fissato dalla Corte costituzionale”, cioè si attribuisce “una valutazione e una responsabilità squisitamente politiche, che invece dovrebbero restare prerogative del governo e del Parlamento”.
Il 7 ottobre Padoa-Schioppa, in un’intervista al Tg1, difende il ricorso alla fiducia da parte del governo Prodi. Due giorni dopo Napolitano gli scrive una lettera “privata” per esprimere un dissenso politico e istituzionale: quasi che l’uso della fiducia vada contro la Costituzione. Il ministro rimane di sasso, anche perché la fiducia è prevista dalla prassi parlamentare e costituzionale, specie quando un governo si regge su una maggioranza così risicata. È l’ennesimo bastone fra le ruote di un governo che, già di suo, barcolla. Ripensando a quei fatti nel 2009-2010, l’ex ministro commenterà con amarezza il fatto che il Quirinale abbia poi concesso a Berlusconi ciò che aveva negato a Prodi: il via libera ai continui ricorsi alla fiducia, nonostante l’amplissima maggioranza di cui nel 2008-2010 gode il centrodestra in entrambi i rami del Parlamento (contrariamente all’Unione nel 2006-2008). L’abuso della fiducia parlamentare, come vedremo, proseguirà nel silenzio-assenso del Quirinale anche sotto i governissimi di Monti e di Letta jr.
Intanto, nell’estate del 2007, è esploso il caso del generale Roberto Speciale, dal 2003 comandante generale della Guardia di finanza, nominato dal governo Berlusconi. Nel luglio del 2006 il viceministro dell’Economia, Vincenzo Visco, gli ordina di avvicendare quattro ufficiali del corpo, praticamente l’intera catena di comando a Milano. Ma lui rifiuta. Il centrodestra lo spalleggia e insinua che Visco voglia trasferire i quattro finanzieri perché stanno indagando anche sullo scandalo Unipol-Bnl. In ogni caso la Guardia di finanza è alle dipendenze del ministero dell’Economia, dunque l’alto ufficiale si rende responsabile di una grave insubordinazione dinanzi all’autorità politica. Siccome Speciale è stato pure coinvolto nello scandalo delle “spigole d’oro” a spese dei contribuenti (se le faceva recapitare con voli militari per le sue vacanze in altura), il governo gli chiede di dimettersi, in cambio della promozione a giudice della Corte dei conti. Ma lui rifiuta.
A quel punto il ministro Padoa-Schioppa, dopo aver illustrato al Parlamento le ragioni che fanno ritenere Speciale un ufficiale infedele, lo destituisce. Il generale però – con tanti saluti al dovere militare dell’obbedienza – si ribella, fa ricorso al Tar, mobilita le truppe del centrodestra, querela Padoa-Schioppa, lancia oscuri messaggi al presunto “nemico”. E, quando il Tar del Lazio il 15 dicembre lo reintegra, scrive una lettera di dimissioni (da un incarico che non ha più), continuando a rivendicare un’assurda autonomia dal governo. Poi ordina – senza averne alcun titolo – al capo di Stato maggiore della Guardia di finanza di diffondere la sua missiva a tutto il corpo delle Fiamme gialle. Insomma si sente al di sopra di tutto e di tutti. Per Padoa-Schioppa, le sue sono mosse da golpista. Ma Napolitano, anziché respingere l’irricevibile lettera al mittente, la accoglie ed elogia addirittura Speciale per il suo presunto “spirito di servizio verso le istituzioni”. Giuseppe D’Avanzo, su Repubblica, critica duramente il comportamento remissivo del presidente (…).
Un generale molto Speciale e le interferenze del Colle. Tutta l’ambiguità del Quirinale sul caso Speciale si palesa nella riunione del Consiglio dei ministri del 19 dicembre, convocata per varare il decreto che accetta le dimissioni di Speciale e nomina il suo successore, il generale Cosimo D’Arrigo. Una riunione drammatica, condizionata dalle solite ingerenze di Napolitano. Si confrontano due tesi: “Accettare le dimissioni e dunque riconoscere che Speciale è ancora in carica, oppure prendere soltanto atto che vuole andarsene, e quindi negare che sia in carica?”.
Il ministro dell’Economia è per la seconda tesi. Ma il Quirinale, ancora una volta, si intromette e preme per la prima soluzione, per non scontentare Berlusconi. Alla fine, con la minaccia di non firmare il decreto, Napolitano la spunta. E così il provvedimento del governo diventa palesemente contraddittorio, al limite del ridicolo: premette che Speciale rinuncia “a essere reintegrato”, dunque non è più in carica; ma poi aggiunge che può tranquillamente dimettersi, non si sa da quale carica.
Un mese dopo Mastella e tutta l’Udeur annunciano l’uscita dalla maggioranza. Il 23 gennaio 2008 Prodi e Padoa-Schioppa vogliono “parlamentarizzare” la crisi: cioè affrontare subito a viso aperto il voto sulla fiducia in Senato, per verificare nella sede centrale della democrazia parlamentare se la coalizione che meno di due anni prima ha vinto, sia pure di poco, le elezioni abbia ancora i numeri non solo a Montecitorio (dove la fiducia è scontata), ma anche a Palazzo Madama. Napolitano invece vorrebbe una crisi extraparlamentare, senza voto in aula. Forse – si interroga l’ex ministro – per evitare l’imbarazzo di un governo appoggiato dalla Camera e bocciato dal Senato. O forse perché, senza una sfiducia esplicita di Palazzo Madama, Prodi sarebbe ancora “spendibile” in seguito, per un suo rinvio alle Camere o per un reincarico, che consentano al Colle di evitare le elezioni anticipate con la “nuova maggioranza” che ha in mente.
Padoa-Schioppa però è convinto che il Colle preferisca gestire la crisi nelle segrete stanze, come se il governo rispondesse a lui e ai partiti, non al Parlamento. Che ai suoi occhi conta meno delle segreterie dei partiti. Tant’è che, in un faccia a faccia con Prodi al Quirinale, Napolitano insiste perché si dimetta prima del voto in aula. Il ministro dell’Economia si dice convinto che il Quirinale “orienti anche la stampa” nella stessa direzione. Ma il premier, seppure molto preoccupato all’idea di scontentare il capo dello Stato, non si piega: andrà trasparentemente alla conta in Senato. E il ministro dell’Economia è d’accordo con lui. “Ero convinto – dirà due anni dopo – che si dovesse andare al voto in Senato per una questione di chiarezza e nella speranza che un voto esplicito resuscitasse un briciolo di “disciplina di coalizione” tra le forze della maggioranza. Invece evitare il voto era una prova di ambiguità, ma anche un modo per conservarsi in tasca una prossima ‘chance’ che gli italiani non avrebbero né capito né apprezzato”.
Il capo dello Stato vuole la solita crisi extraparlamentare. A Montecitorio Prodi chiede ai deputati un voto esplicito di fiducia, rivendicando quella che Padoa-Schioppa chiama “una linea di piena ‘parlamentarizzazione’ della crisi”. Poi – è il 24 gennaio – sale al Quirinale, anche perché Napolitano, ma non solo lui, preme perché non vada al voto in Senato. Oppure – come vorrebbe Letta jr. – ci resti soltanto per il dibattito, fino alle dichiarazioni di voto. E a quel punto, se apparirà chiaro che la maggioranza non c’è più, chieda una pausa, rinunci al voto e vada a dimettersi al Colle. Ma il Professore tiene duro: quell’escamotage – ricorda Padoa-Schioppa – “gli appare una fuga, un espediente furbesco che gli italiani non capirebbero”.
Lo chiama anche il segretario del Pd Piero Fassino, per sponsorizzare il “lodo Letta”, che ormai è la linea di tutto il Pd dettata da Napolitano. Il premier potrebbe considerare le dimissioni prima del voto in Senato soltanto se il Quirinale gli offrisse un ruolo nel dopo-crisi, con un reincarico o almeno con la permanenza a Palazzo Chigi fino alle elezioni. Ma né il presidente né il Pd gli prospettano nulla di simile. Tutto questo tramestio, per Padoa-Schioppa, è frutto dell’immaturità democratica (lui parla di “cultura distorta della democrazia”) non solo dell’Italia, ma anche delle alte cariche dello Stato. Napolitano, Marini e Bertinotti non hanno mai assimilato le due regole basilari della democrazia dell’alternanza: la maggioranza governa; la minoranza si oppone con tutte le garanzie. O, meglio, conoscono soltanto la seconda.
Il 30 gennaio Napolitano dà un mandato esplorativo e condizionato a Franco Marini, per mettere insieme una maggioranza provvisoria che riformi la legge elettorale e consenta al governo di assumere le decisioni più urgenti. Un’altra clamorosa forzatura costituzionale, osserva Padoa-Schioppa nel suo diario: non è un vero “incarico”, ma una mossa del presidente per un governo che, prima ancora di nascere, dovrebbe già avere il “consenso su un preciso progetto”. È improbabile – riflette l’ex ministro – che questa astruseria sia la soluzione suggerita dai partiti durante le consultazioni. Più verosimile che l’abbia partorita personalmente il presidente. Padoa-Schioppa la fulmina con un aforisma folgorante: “Un cammello è un cavallo disegnato da un comitato”. E spiega: “A me quella soluzione sembra un cammello, poco coerente con la Costituzione e tale da spianare la strada al risultato che Berlusconi cerca, elezioni al più presto”.
Il motivo è semplice: per fare un governo basta il 50% più uno del Parlamento, mentre per cambiare la legge elettorale occorre una maggioranza più ampia, ma soprattutto diversa da quella necessaria per governare. Un conto è l’amministrazione, un altro le regole del voto che investono una “questione di fatto costituzionale” (anche se regolata da una legge ordinaria) e dunque richiedono un accordo tra i due schieramenti contrapposti alle elezioni e in Parlamento. Perché mai Napolitano mette insieme le due cose, legando il governo alla legge elettorale? Evidentemente, per lui, “governare non è importante”. “In molti paesi – ricorda Padoa-Schioppa – governare è considerato talmente importante che si accetta di farlo, anche per lungo tempo, anche con un governo di minoranza”, com’è avvenuto in Danimarca e come presto accadrà in Belgio. In Italia invece molto meno: “Da noi conta la politics, non la policy”. Insomma, le condizioni poste dal Quirinale a Marini sono “quasi impossibili”, ma soprattutto regalano a Berlusconi il diritto di veto e dunque “il controllo del risultato”. E pazienza se – com’è scontato – l’Italia non sarà più governata per un po’. Un’alternativa per salvare la legislatura ci sarebbe, osserva l’ex ministro : tentare ancora di compattare la maggioranza uscita dalle urne del 2006, dunque senza Berlusconi, che vuole una cosa soltanto: le elezioni. Una maggioranza magari striminzita, ma “certamente antiberlusconiana e inadatta a fare – da sola – una nuova legge elettorale”. Ma Napolitano vuole esattamente il contrario: per lui, appunto, “un cammello è un cavallo disegnato da un comitato”. La metafora racchiude, più efficace e micidiale di qualunque saggio o editoriale, la quintessenza della cultura politica togliattiana e giacobina, cioè ben poco democratica nel senso classico del termine, del presidente Giorgio Napolitano.
Visto poi quello che il presidente sarà capace di fare e di dire per puntellare il terzo governo Berlusconi e soprattutto quelli dei “suoi” Monti e Letta, non c’è dubbio che Prodi non è caduto solo per i numeri risicati al Senato, per le campagne acquisti del Caimano e per i logoramenti del nuovo Pd di Veltroni. Ma anche per il mancato appoggio (per non dire di peggio) del Quirinale. Padoa-Schioppa lo scrive nel suo diario già il 14 febbraio 2008, senza neppure il senno di poi: Napolitano ha un “giudizio negativo” su Prodi. E non solo non l’ha mai aiutato. Ma ha spesso contribuito a “logorarlo” e ad “accelerarne la caduta”.
da Il Fatto Quotidiano del 5 dicembre 2013
Politica
Quirinale, “così Giorgio Napolitano ha sabotato il governo Prodi”
Ecco l'anticipazione di un capitolo del libro "Viva il Re!" di Marco Travaglio (ed. Chiarelettere). L'ex ministro dell'Economia Padoa-Schioppa ha scritto in un diario i retroscena della crisi dell'ultimo esecutivo di centrosinistra. Il Capo dello Stato "detestava il bipolarismo e perseguiva un suo disegno politico": ha contribuito a "logorare" il Professore e ad "accelerarne la caduta"
La storia del secondo governo Prodi ha un doppiofondo segreto. In quei 722 giorni di calvario, il ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa – di gran lunga il miglior elemento della compagine – matura la convinzione che Napolitano abbia fatto di tutto per indebolire, logorare, talora boicottare l’esecutivo dell’Unione. E lo scrive in alcune pagine del suo diario che l’autore di questo libro – in alcuni colloqui avuti con lui nella sua casa romana fra il 2009 e il 2010 fino a poche settimane prima della sua improvvisa scomparsa (il 18 dicembre 2010) – ha avuto il privilegio di poter leggere, discutere e annotare nelle parti più significative e attuali. Ma ha deciso di non riportarle testualmente per rispetto della volontà dei familiari, che decideranno liberamente se e quando rendere pubblici quegli scritti.
Il Quirinale al lavoro contro il centrosinistra. Il 21 febbraio 2007, dopo meno di un anno di vita, il governo Prodi è già in crisi. La maggioranza, divisa sulle coppie di fatto, sul rifinanziamento della missione militare in Afghanistan, sul raddoppio della base americana di Vicenza, “va sotto” al Senato sulla risoluzione che deve approvare la politica estera del ministro D’Alema: soltanto 158 Sì (su un quorum di 160) contro 136 No e 24 astenuti (decisivi i neocomunisti Fernando Rossi e Franco Turigliatto). Prodi sale subito al Quirinale per rimettere il mandato nelle mani di Napolitano. L’indomani – annota Padoa-Schioppa nel suo diario – Prodi torna al Quirinale e lì Napolitano chiede garanzie preventive sui “numeri al Senato” in vista della fiducia e del voto sull’Afghanistan. Pare che il capo dello Stato non gradisca una maggioranza che si regga sui senatori a vita, come se questi fossero figli di un dio minore. Il ministro dell’Economia è sconcertato: il voto si fa in Parlamento, non al Quirinale, e sarebbe ora di finirla con il malvezzo delle “crisi extraparlamentari” da Prima Repubblica.
Il 24 febbraio, previe consultazioni informali con i partiti, Napolitano respinge le dimissioni di Prodi e lo rinvia alle Camere per il voto di fiducia. Nessuno – a parte chi gli parla in privato – sa che il presidente sta segretamente lavorando con personali “esplorazioni” a un’altra maggioranza, al momento però invano. Quale maggioranza? Il solito inciucio di larghe – o almeno più larghe – intese. Una posizione che Padoa-Schioppa definisce “inquietante”. Così come il comunicato del Colle, che pretende una maggioranza “politica”: un altro cedimento alla tesi del centrodestra, che vorrebbe escludere i senatori a vita dal voto. Il che, ricorda l’ex ministro, induce il povero Ciampi a disertare le sedute del Senato ogni volta che è in gioco la sopravvivenza del governo (invece Rita Levi-Montalcini, spesso volgarmente insultata dai banchi della destra, è quasi sempre presente, e votante).
Il 28 febbraio il governo ottiene la fiducia a Palazzo Madama (162 Sì, 157 No), anche grazie al passaggio di Marco Follini dall’Udc al centrosinistra. Il 3 marzo si replica a Montecitorio (342 Sì, 253 No e 2 astenuti). La crisi è rientrata. Almeno per ora. Qualche mese di relativa calma. Poi il 12 luglio Napolitano torna a polemizzare con Prodi e Padoa-Schioppa a proposito di un emendamento inserito dal governo in un decreto già approvato e in fase di conversione in legge in Parlamento. Il presidente rivendica per sé un diritto di veto sul potere legislativo molto discutibile, almeno per il ministro dell’Economia. Che non riesce a comprendere come possa il capo dello Stato pretendere di sindacare sull’urgenza dei provvedimenti del governo, visto che questa è una valutazione squisitamente “politica”, che spetta al Consiglio dei ministri e al Parlamento, non al capo dello Stato. Il che vale, a maggior ragione, per il giudizio sugli emendamenti, governativi e parlamentari: di che si impiccia Napolitano?
Il braccio di ferro fra Palazzo Chigi e ministero dell’Economia da una parte e Quirinale dall’altra, pur non trapelando quasi mai sulla stampa, prosegue sotterraneamente su altre questioni di fondo. Padoa-Schioppa continua a pensare che Napolitano si assuma compiti non suoi, debordando dai suoi poteri costituzionali. Come quando considera antidemocratico qualsiasi atto e riforma del governo che non sia stato preventivamente “concordato” con l’opposizione. Cioè con Berlusconi. È una malintesa forma di garanzia presidenziale all’opposizione con l’ossessiva ricerca di una “pacificazione”. Che però – osserva l’ex ministro – “porta il presidente a chiedere molto di più alla maggioranza che all’opposizione”, visto che “le prevaricazioni vengono dall’opposizione, non dalla maggioranza”. Padoa-Schioppa si domanda perché Napolitano faccia così. E si risponde che forse è perché è stato eletto solo dal centrosinistra. O forse perché è divorato da un’ansia di “popolarità”: insomma vorrebbe essere come Pertini, o almeno come Ciampi. Ma Pertini e Ciampi erano popolari fra la gente, mentre l’attuale presidente cerca consensi soprattutto nel Palazzo, tra i partiti, da vero “professionista della politica”. Inoltre, la lunga appartenenza a un partito di opposizione, il Pci, lo porta a pensare che le opposizioni abbiano sempre una sorta di “diritto di veto” sulle scelte della maggioranza.
“Un disegno politico da Prima Repubblica anti-bipolarismo”. Ma soprattutto – ripete spesso Padoa-Schioppa nei nostri colloqui – “Napolitano detesta il bipolarismo e persegue un suo disegno politico”, quello svelato nella breve crisi del febbraio 2007: quello di un governo di larghe intese che eliminerebbe l’alternanza fra destra e sinistra e scipperebbe agli elettori il diritto di scegliere da chi essere governati, per rimetterlo nelle mani delle segreterie dei partiti. Come nella Prima Repubblica, che rimane l’unico orizzonte di Napolitano. Ma anche – osserva malizioso l’ex ministro – “come in Unione Sovietica”: “il governo lo sceglie il partito (o i partiti) e non il popolo”. Peccato che la Costituzione dica tutt’altro. E che ciò metta in pericolo la democrazia italiana, specie se all’opposizione c’è Berlusconi. Che, come spesso è accaduto nella storia della conquista del potere dei partiti comunisti nel XX secolo, punta a entrare in larghe coalizioni da posizioni di minoranza, per poi prendersi la maggioranza.
Il 16 luglio dal ministero dell’Economia parte per il Quirinale una nota critica sulla posizione di Napolitano in materia di decreti urgenti e di emendamenti durante l’iter parlamentare (…) “perché introduce di fatto un filtro più fine di quello fissato dalla Corte costituzionale”, cioè si attribuisce “una valutazione e una responsabilità squisitamente politiche, che invece dovrebbero restare prerogative del governo e del Parlamento”.
Il 7 ottobre Padoa-Schioppa, in un’intervista al Tg1, difende il ricorso alla fiducia da parte del governo Prodi. Due giorni dopo Napolitano gli scrive una lettera “privata” per esprimere un dissenso politico e istituzionale: quasi che l’uso della fiducia vada contro la Costituzione. Il ministro rimane di sasso, anche perché la fiducia è prevista dalla prassi parlamentare e costituzionale, specie quando un governo si regge su una maggioranza così risicata. È l’ennesimo bastone fra le ruote di un governo che, già di suo, barcolla. Ripensando a quei fatti nel 2009-2010, l’ex ministro commenterà con amarezza il fatto che il Quirinale abbia poi concesso a Berlusconi ciò che aveva negato a Prodi: il via libera ai continui ricorsi alla fiducia, nonostante l’amplissima maggioranza di cui nel 2008-2010 gode il centrodestra in entrambi i rami del Parlamento (contrariamente all’Unione nel 2006-2008). L’abuso della fiducia parlamentare, come vedremo, proseguirà nel silenzio-assenso del Quirinale anche sotto i governissimi di Monti e di Letta jr.
Intanto, nell’estate del 2007, è esploso il caso del generale Roberto Speciale, dal 2003 comandante generale della Guardia di finanza, nominato dal governo Berlusconi. Nel luglio del 2006 il viceministro dell’Economia, Vincenzo Visco, gli ordina di avvicendare quattro ufficiali del corpo, praticamente l’intera catena di comando a Milano. Ma lui rifiuta. Il centrodestra lo spalleggia e insinua che Visco voglia trasferire i quattro finanzieri perché stanno indagando anche sullo scandalo Unipol-Bnl. In ogni caso la Guardia di finanza è alle dipendenze del ministero dell’Economia, dunque l’alto ufficiale si rende responsabile di una grave insubordinazione dinanzi all’autorità politica. Siccome Speciale è stato pure coinvolto nello scandalo delle “spigole d’oro” a spese dei contribuenti (se le faceva recapitare con voli militari per le sue vacanze in altura), il governo gli chiede di dimettersi, in cambio della promozione a giudice della Corte dei conti. Ma lui rifiuta.
A quel punto il ministro Padoa-Schioppa, dopo aver illustrato al Parlamento le ragioni che fanno ritenere Speciale un ufficiale infedele, lo destituisce. Il generale però – con tanti saluti al dovere militare dell’obbedienza – si ribella, fa ricorso al Tar, mobilita le truppe del centrodestra, querela Padoa-Schioppa, lancia oscuri messaggi al presunto “nemico”. E, quando il Tar del Lazio il 15 dicembre lo reintegra, scrive una lettera di dimissioni (da un incarico che non ha più), continuando a rivendicare un’assurda autonomia dal governo. Poi ordina – senza averne alcun titolo – al capo di Stato maggiore della Guardia di finanza di diffondere la sua missiva a tutto il corpo delle Fiamme gialle. Insomma si sente al di sopra di tutto e di tutti. Per Padoa-Schioppa, le sue sono mosse da golpista. Ma Napolitano, anziché respingere l’irricevibile lettera al mittente, la accoglie ed elogia addirittura Speciale per il suo presunto “spirito di servizio verso le istituzioni”. Giuseppe D’Avanzo, su Repubblica, critica duramente il comportamento remissivo del presidente (…).
Un generale molto Speciale e le interferenze del Colle. Tutta l’ambiguità del Quirinale sul caso Speciale si palesa nella riunione del Consiglio dei ministri del 19 dicembre, convocata per varare il decreto che accetta le dimissioni di Speciale e nomina il suo successore, il generale Cosimo D’Arrigo. Una riunione drammatica, condizionata dalle solite ingerenze di Napolitano. Si confrontano due tesi: “Accettare le dimissioni e dunque riconoscere che Speciale è ancora in carica, oppure prendere soltanto atto che vuole andarsene, e quindi negare che sia in carica?”.
Il ministro dell’Economia è per la seconda tesi. Ma il Quirinale, ancora una volta, si intromette e preme per la prima soluzione, per non scontentare Berlusconi. Alla fine, con la minaccia di non firmare il decreto, Napolitano la spunta. E così il provvedimento del governo diventa palesemente contraddittorio, al limite del ridicolo: premette che Speciale rinuncia “a essere reintegrato”, dunque non è più in carica; ma poi aggiunge che può tranquillamente dimettersi, non si sa da quale carica.
Un mese dopo Mastella e tutta l’Udeur annunciano l’uscita dalla maggioranza. Il 23 gennaio 2008 Prodi e Padoa-Schioppa vogliono “parlamentarizzare” la crisi: cioè affrontare subito a viso aperto il voto sulla fiducia in Senato, per verificare nella sede centrale della democrazia parlamentare se la coalizione che meno di due anni prima ha vinto, sia pure di poco, le elezioni abbia ancora i numeri non solo a Montecitorio (dove la fiducia è scontata), ma anche a Palazzo Madama. Napolitano invece vorrebbe una crisi extraparlamentare, senza voto in aula. Forse – si interroga l’ex ministro – per evitare l’imbarazzo di un governo appoggiato dalla Camera e bocciato dal Senato. O forse perché, senza una sfiducia esplicita di Palazzo Madama, Prodi sarebbe ancora “spendibile” in seguito, per un suo rinvio alle Camere o per un reincarico, che consentano al Colle di evitare le elezioni anticipate con la “nuova maggioranza” che ha in mente.
Padoa-Schioppa però è convinto che il Colle preferisca gestire la crisi nelle segrete stanze, come se il governo rispondesse a lui e ai partiti, non al Parlamento. Che ai suoi occhi conta meno delle segreterie dei partiti. Tant’è che, in un faccia a faccia con Prodi al Quirinale, Napolitano insiste perché si dimetta prima del voto in aula. Il ministro dell’Economia si dice convinto che il Quirinale “orienti anche la stampa” nella stessa direzione. Ma il premier, seppure molto preoccupato all’idea di scontentare il capo dello Stato, non si piega: andrà trasparentemente alla conta in Senato. E il ministro dell’Economia è d’accordo con lui. “Ero convinto – dirà due anni dopo – che si dovesse andare al voto in Senato per una questione di chiarezza e nella speranza che un voto esplicito resuscitasse un briciolo di “disciplina di coalizione” tra le forze della maggioranza. Invece evitare il voto era una prova di ambiguità, ma anche un modo per conservarsi in tasca una prossima ‘chance’ che gli italiani non avrebbero né capito né apprezzato”.
Il capo dello Stato vuole la solita crisi extraparlamentare. A Montecitorio Prodi chiede ai deputati un voto esplicito di fiducia, rivendicando quella che Padoa-Schioppa chiama “una linea di piena ‘parlamentarizzazione’ della crisi”. Poi – è il 24 gennaio – sale al Quirinale, anche perché Napolitano, ma non solo lui, preme perché non vada al voto in Senato. Oppure – come vorrebbe Letta jr. – ci resti soltanto per il dibattito, fino alle dichiarazioni di voto. E a quel punto, se apparirà chiaro che la maggioranza non c’è più, chieda una pausa, rinunci al voto e vada a dimettersi al Colle. Ma il Professore tiene duro: quell’escamotage – ricorda Padoa-Schioppa – “gli appare una fuga, un espediente furbesco che gli italiani non capirebbero”.
Lo chiama anche il segretario del Pd Piero Fassino, per sponsorizzare il “lodo Letta”, che ormai è la linea di tutto il Pd dettata da Napolitano. Il premier potrebbe considerare le dimissioni prima del voto in Senato soltanto se il Quirinale gli offrisse un ruolo nel dopo-crisi, con un reincarico o almeno con la permanenza a Palazzo Chigi fino alle elezioni. Ma né il presidente né il Pd gli prospettano nulla di simile. Tutto questo tramestio, per Padoa-Schioppa, è frutto dell’immaturità democratica (lui parla di “cultura distorta della democrazia”) non solo dell’Italia, ma anche delle alte cariche dello Stato. Napolitano, Marini e Bertinotti non hanno mai assimilato le due regole basilari della democrazia dell’alternanza: la maggioranza governa; la minoranza si oppone con tutte le garanzie. O, meglio, conoscono soltanto la seconda.
Il 30 gennaio Napolitano dà un mandato esplorativo e condizionato a Franco Marini, per mettere insieme una maggioranza provvisoria che riformi la legge elettorale e consenta al governo di assumere le decisioni più urgenti. Un’altra clamorosa forzatura costituzionale, osserva Padoa-Schioppa nel suo diario: non è un vero “incarico”, ma una mossa del presidente per un governo che, prima ancora di nascere, dovrebbe già avere il “consenso su un preciso progetto”. È improbabile – riflette l’ex ministro – che questa astruseria sia la soluzione suggerita dai partiti durante le consultazioni. Più verosimile che l’abbia partorita personalmente il presidente. Padoa-Schioppa la fulmina con un aforisma folgorante: “Un cammello è un cavallo disegnato da un comitato”. E spiega: “A me quella soluzione sembra un cammello, poco coerente con la Costituzione e tale da spianare la strada al risultato che Berlusconi cerca, elezioni al più presto”.
Il motivo è semplice: per fare un governo basta il 50% più uno del Parlamento, mentre per cambiare la legge elettorale occorre una maggioranza più ampia, ma soprattutto diversa da quella necessaria per governare. Un conto è l’amministrazione, un altro le regole del voto che investono una “questione di fatto costituzionale” (anche se regolata da una legge ordinaria) e dunque richiedono un accordo tra i due schieramenti contrapposti alle elezioni e in Parlamento. Perché mai Napolitano mette insieme le due cose, legando il governo alla legge elettorale? Evidentemente, per lui, “governare non è importante”. “In molti paesi – ricorda Padoa-Schioppa – governare è considerato talmente importante che si accetta di farlo, anche per lungo tempo, anche con un governo di minoranza”, com’è avvenuto in Danimarca e come presto accadrà in Belgio. In Italia invece molto meno: “Da noi conta la politics, non la policy”. Insomma, le condizioni poste dal Quirinale a Marini sono “quasi impossibili”, ma soprattutto regalano a Berlusconi il diritto di veto e dunque “il controllo del risultato”. E pazienza se – com’è scontato – l’Italia non sarà più governata per un po’. Un’alternativa per salvare la legislatura ci sarebbe, osserva l’ex ministro : tentare ancora di compattare la maggioranza uscita dalle urne del 2006, dunque senza Berlusconi, che vuole una cosa soltanto: le elezioni. Una maggioranza magari striminzita, ma “certamente antiberlusconiana e inadatta a fare – da sola – una nuova legge elettorale”. Ma Napolitano vuole esattamente il contrario: per lui, appunto, “un cammello è un cavallo disegnato da un comitato”. La metafora racchiude, più efficace e micidiale di qualunque saggio o editoriale, la quintessenza della cultura politica togliattiana e giacobina, cioè ben poco democratica nel senso classico del termine, del presidente Giorgio Napolitano.
Visto poi quello che il presidente sarà capace di fare e di dire per puntellare il terzo governo Berlusconi e soprattutto quelli dei “suoi” Monti e Letta, non c’è dubbio che Prodi non è caduto solo per i numeri risicati al Senato, per le campagne acquisti del Caimano e per i logoramenti del nuovo Pd di Veltroni. Ma anche per il mancato appoggio (per non dire di peggio) del Quirinale. Padoa-Schioppa lo scrive nel suo diario già il 14 febbraio 2008, senza neppure il senno di poi: Napolitano ha un “giudizio negativo” su Prodi. E non solo non l’ha mai aiutato. Ma ha spesso contribuito a “logorarlo” e ad “accelerarne la caduta”.
da Il Fatto Quotidiano del 5 dicembre 2013
PADRINI FONDATORI
di Marco Lillo e Marco Travaglio 15€ AcquistaArticolo Precedente
Legge elettorale: dopo Berlusconi, fuori il secondo Porcellum. Ora nuove elezioni
Articolo Successivo
Legge elettorale, il Colle: “Non si discute legittimità del Parlamento, ma sua volontà”
Gentile lettore, la pubblicazione dei commenti è sospesa dalle 20 alle 9, i commenti per ogni articolo saranno chiusi dopo 72 ore, il massimo di caratteri consentito per ogni messaggio è di 1.500 e ogni utente può postare al massimo 150 commenti alla settimana. Abbiamo deciso di impostare questi limiti per migliorare la qualità del dibattito. È necessario attenersi Termini e Condizioni di utilizzo del sito (in particolare punti 3 e 5): evitare gli insulti, le accuse senza fondamento e mantenersi in tema con la discussione. I commenti saranno pubblicati dopo essere stati letti e approvati, ad eccezione di quelli pubblicati dagli utenti in white list (vedere il punto 3 della nostra policy). Infine non è consentito accedere al servizio tramite account multipli. Vi preghiamo di segnalare eventuali problemi tecnici al nostro supporto tecnico La Redazione
Mondo
Trump: “Buone chance di finire guerra”. Putin: “Rapporti con gli Usa migliorano. Se Kiev nel Kursk si arrende, risparmieremo la loro vita”
Lavoro & Precari
La soluzione del ministro Urso per la crisi dell’auto: “Incentivi a chi si riconverte al comparto della difesa”. Fiom: “Assurdo”. M5s e Avs: “Piano folle e scellerato”
Politica
Delmastro boccia la riforma Nordio: “I pm divoreranno i giudici”. Poi tenta il dietrofront, ma spunta l’audio. E il ministro lo difende
(Adnkronos) - La richiesta riguarda tutti le tracce trovate nella villetta di via Pascoli dove avviene il delitto, a partire dalle fascette dei rilievi dattiloscopici e le impronte digitali trovate nell'appartamento e sul dispenser portasapone dove - sancisce la Cassazione - si lava l'assassino. L'intenzione degli inquirenti è anche quella di lavorare sui quattro capelli scuri trovati nel lavandino del bagno al piano terra, così come sull'impronta trovata sulla porta d'ingresso dell'abitazione. Per i carabinieri di Milano sul dispenser (oltre alle due impronte di Alberto Stasi, condannato in via definitiva a 16 anni per l'omicidio) "vi sono numerose impronte papillari sovrapposte che sarebbero state cancellate se il dispenser fosse stato lavato dal sangue" e nel lavandino la presenza di 4 capelli neri lunghi "attestano ovviamente che il lavandino non è mai stato lavato dalla presenza di sangue. Diversamente, i capelli presenti nel lavabo sarebbero stati portati via dall'acqua".
Una tesi smentita dalla stessa Procura di Pavia nella prima archiviazione, di otto anni fa, contro l'indagato Sempio. Un'ipotesi "priva di fondamento logico dal momento che è processualmente accertato che l'assassino aveva le mani imbrattate di sangue e che si è recato in bagno per lavarsi". Il sangue, liquido e solubile in acqua, "viene lavato molto più facilmente dei capelli che, stante la loro forma e lunghezza rimangono molto più facilmente sul fondo della vasca anche dopo il lavaggio del sangue" e si tratta dei capelli di Chiara "recisi a causa dei colpi inferti e rimasti sulle mani insanguinate dell'assassino; la loro presenza attesta semmai che lo stesso si è effettivamente lavato le mani". È peraltro "verosimile che l'assassino non si sia soffermato per verificare l'effetto del risciacquo, ma si sia allontanato rapidamente dalla scena".
I carabinieri sono intenzionati anche ad approfondire un'impronta digitale trovata sulla maniglia della porta di ingresso (ritenuta allora non utile dal Ris di Parma) su cui "non appare sia stata eseguita alcuna indagine biologica mirata ad accertare se quel contatto possa essere stato lasciato da una mano sporca di sangue (della vittima o di altri) o se fosse altra sostanza". Una tesi "oltre che logicamente fallace, non è di alcuna utilità investigativa" essendo stata osservata tre giorni dopo il delitto e trovandosi accanto alla serratura. Una porta toccata da Stasi e da soccorritori e investigatori. "Le tracce papillari, al pari del Dna, non sono databili. È impossibile sapere se quella traccia sia stata deposta il giorno del delitto o nei giorni precedenti (o addirittura in quelli successivi), basti pensare che in sede di rilievo sono state trovate anche le impronte papillari" di alcuni carabinieri coinvolti nelle indagini e di un falegname intervenuto tempo prima nella villetta per effettuare alcuni lavori. Per queste ragioni, concludeva l'archiviazione, "è evidente la totale irrilevanza investigativa della traccia segnalata".
Roma, 14 mar. (Adnkronos) - ''Per la sua posizione geografica strategica al centro del Mediterraneo, l’Italia rappresenta un ponte energetico tra Europa, Nord Africa e Medio Oriente''. Terna, presentando il piano di sviluppo 2025, conferma gli interventi di interconnessione con l’estero, al fine di ''garantire sicurezza, sostenibilità ed efficienza, tramite la possibilità di mutuo soccorso tra sistemi interconnessi. In aggiunta, queste infrastrutture costituiscono un fondamentale strumento di flessibilità per condividere risorse di generazione e capacità di accumulo, a fronte della variabilità della produzione rinnovabile''.
Tra i principali progetti pianificati Terna segnala 'Sa.Co.I.3', il progetto di ammodernamento e potenziamento dell’attuale interconnessione tra Sardegna, Corsica e Toscana, il progetto di interconnessione tra Italia e Tunisia 'Elmed', il raddoppio interconnessione Italia-Grecia, che ''consentirà la gestione in sicurezza dell’intera Zona Sud e favorirà approvvigionamenti efficienti di energia, grazie alla possibilità di abilitare nuove risorse attraverso il coupling del mercato elettrico e di mantenere lo scambio di energia tra i due Paesi anche in presenza di manutenzioni''.
Inoltre, nel piano di sviluppo 2025 sono presenti ulteriori progetti di interconnessione, noti come 'Merchant lines', a cura di altri promotori e/o non titolari di concessioni di trasporto. Il numero di tali iniziative ha subito un’accelerazione negli ultimi anni. Risultano in fase di avvio consultazione 11 richieste per oltre 12 Gw di capacità. Terna segnala che la gestione delle richieste di connessione alla rete in alta tensione, principalmente concentrate al sud e nelle isole, permette di ''avere una visione sistemica delle future evoluzioni degli impianti rinnovabili e dei sistemi di accumulo, così da realizzare uno sviluppo sinergico delle infrastrutture e garantire la massima efficienza nella realizzazione delle opere di rete''.
Secondo i dati di Terna, al 31 dicembre 2024, risultano 348 Gw di richieste di connessione per impianti rinnovabili (di cui 152 Gw di solare, 110 Gw di eolico on-shore e 86 Gw di eolico off-shore) e 277 Gw per sistemi di accumulo. Questi numeri, che ''superano ampiamente il fabbisogno nazionale individuato dal documento di descrizione degli scenari 2024 Terna-Snam e dai target nazionali, confermano che il Paese rappresenta una significativa opzione di investimento, anche grazie a meccanismi legislativi di sostegno alla realizzazione di impianti a fonti rinnovabili e ad una regolamentazione che ne incentiva lo sviluppo'', secondo la società.
In aggiunta, nell’ultimo biennio si è registrata una crescita delle richieste anche per gli utenti di consumo, che prelevano direttamente energia dalla rete di trasmissione nazionale e includono, ad esempio, impianti ad alto consumo energetico. Le richieste di connessione per questi utenti possono riguardare sia l’adeguamento di impianti già operativi sia la connessione di nuovi impianti alla rete. Tale tendenza è attribuibile per larga parte ai centri di elaborazione (data center): al 31 dicembre 2024 le richieste erano pari a circa 30 Gw, dato annuale 24 volte superiore rispetto a quello del 2021. Tali richieste sono principalmente localizzate nel Nord Italia, soprattutto in Lombardia.
Terna annuncia che ''con lo scopo di favorire una sempre più ampia abilitazione delle rinnovabili e per garantire un’elevata qualità del servizio, in sinergia con i concessionari del servizio di distribuzione, è stato individuato un set di Cabine primarie da potenziare o da connettere alla Rete di trasmissione nazionale''. Il trend di tali richieste di connessione si è ulteriormente ampliato per effetto dei fondi messi a disposizione nell’ambito del Pnrr. Terna ha definito un approccio di gestione delle richieste di connessione basato sulla definizione di 76 'microzone' che ''consentono di modellare in modo efficace un perimetro all’interno del quale studiare soluzioni di connessione e quantificare la capacità rinnovabile addizionale che può essere integrata nella rete''.
Roma, 14 mar. (Adnkronos) - Dallo sviluppo di infrastrutture abilitanti e innovative alla garanzia di stabilità e sicurezza della rete elettrica, passando per la risoluzione delle congestioni locali. Sono gli obiettivi del piano di sviluppo 2025 presentato da Terna. ''Considerato il complesso e sfidante contesto elettrico'' Terna comunica di aver ''svolto una importante attività di definizione delle priorità di sviluppo. Sono stati privilegiati gli interventi che offrono il massimo valore per il sistema, individuando soluzioni 'capital light' al fine di ridurre i costi e massimizzare l'efficacia degli investimenti necessari alla transizione energetica''.
Gli interventi previsti dal piano, che consentiranno di operare con una visione di lungo termine in considerazione delle esigenze della rete, rispondono alla necessità di ''sviluppare infrastrutture abilitanti e innovative, funzionali al raggiungimento della capacità obiettivo efficiente, per aumentare i limiti di transito tra le sezioni di mercato e massimizzare lo scambio di energia''. Il programma prevede anche di ''risolvere le congestioni locali, garantendo l’esercizio in sicurezza all’interno delle zone di mercato, tramite la pianificazione di interventi intrazonali''.
Terna punta inoltre a ''rispondere in modo efficiente a tutte le richieste di connessione alla rete attraverso la definizione di un nuovo modello, la Programmazione territoriale efficiente''. Infine sarà garantita ''la stabilità e la sicurezza della rete elettrica e l’integrazione dei mercati tramite le interconnessioni con l’estero, che consentono una gestione flessibile e bilanciata delle risorse energetiche, favorendo gli scambi tra le reti nazionali''.
Nell’orizzonte temporale del piano di sviluppo 2025, la maggioranza degli interventi previsti in esercizio entro il 2030 ha ottenuto l’autorizzazione o è già in fase di autorizzazione. Tra questi figurano le principali opere infrastrutturali dell’azienda, come Tyrrhenian Link, il collegamento hvdc sottomarino a 500 kV che unirà la Sicilia alla Campania e alla Sardegna. ''L’opera consentirà una maggiore integrazione tra le diverse zone di mercato e un più efficace utilizzo dei flussi di energia proveniente da fonti rinnovabili''. L’opera sarà completata entro il 2028.
Tra le opere principali Terna segnala Adriatic Link: il collegamento hvdc tra Abruzzo e Marche da 1.000 MW di potenza lungo circa 250 km, di cui 210 km sottomarini. L’entrata in esercizio è prevista per il 2029. Entro il 2034 sono poi previsti ulteriori rinforzi infrastrutturali tra cui la Dorsale Adriatica: collegamento in corrente continua tra Foggia e Forlì che garantirà il rafforzamento del corridoio adriatico, permettendo un incremento sostanziale della capacità di scambio.
Terna prevede inoltre la realizzazione di importanti infrastrutture che hanno l’obiettivo di aumentare il livello di sicurezza della rete e la capacità intrazonale. Si tratta di interventi che favoriscono lo scambio di energia all’interno della stessa zona di mercato, funzionali all’integrazione delle fonti rinnovabili e alla risoluzione delle congestioni di rete a livello locale. Tra le opere previste, tre collegamenti a 380 kV in Sicilia (Chiaramonte Gulfi-Ciminna, Caracoli-Ciminna e Paternò-Priolo) e uno in Lombardia (Milano-Brescia).
Il Piano di Sviluppo 2025 di Terna si pone l’obiettivo di estrarre maggior valore dagli asset esistenti, tramite interventi di tipo 'capital light', che si basano su strumenti e soluzioni innovative e che si affiancano ai tradizionali interventi infrastrutturali, consentendo di perseguire rilevanti benefici per la rete. L’attività di Terna di pianificazione della futura rete elettrica può contare oggi su iter di approvazione semplificati per le grandi infrastrutture da parte di Arera e Mase. In particolare, l’Autorità, attraverso il meccanismo dell’approvazione per fasi, ha semplificato il processo fornendo strumenti per velocizzare il percorso di progettazione, autorizzazione e realizzazione.
Anche a valle delle recenti semplificazioni normative ''è stato possibile raggiungere una significativa riduzione dei tempip''. La realizzazione delle infrastrutture sarà supportata anche da strumenti che assicurano e garantiscono la sicurezza e la flessibilità del sistema. Su tutti, il Capacity market con cui Terna si approvvigiona di capacità tramite contratti aggiudicati attraverso aste competitive, e il Macse (Meccanismo per l’approvvigionamento di capacità di stoccaggio elettrico). La prima asta del Macse sarà svolta da Terna il prossimo 30 settembre.
Roma, 14 mar. (Adnkronos) - Martedì prossimo, 18 marzo, alle ore 10, presso la Sala Koch del Senato, le commissioni riunite Bilancio, Attività produttive e Politiche Ue di Camera e Senato svolgeranno l'audizione di Mario Draghi in merito al Rapporto sul futuro della competitività europea. L'appuntamento verrà trasmesso in diretta webtv.
Roma, 14 mar. (Adnkronos) - Ad un mese dalla finale del festival della canzone italiana 2025, nella classifica dei singoli brani è ancora Sanremomania, con ben 13 brani passati in gara al Teatro Ariston nelle prime 13 posizioni. E questo fa segnare all'edizione 2025 un nuovo record rispetto agli ultimi anni, per numero di brani di Sanremo nella top ten ad un mese dal festival: se infatti quest'anno sono 10 (cioè l'intera top ten è composta da brani in gara al festival un mese fa), l'anno scorso era stati 7 come nel 2023, nel 2022 e nel 2021 erano stati 8 e nel 2024.
Nella top ten dei singoli infatti, al primo posto c'è proprio il brano vincitore del festival: 'Balorda Nostalgia' di Olly. Al secondo 'La cura per me' di Giorgia, al terzo 'Incoscienti giovani' di Achille Lauro, al quarto 'Battito' di Fedez, al quinto 'Cuoricini' dei Coma_Cose, al sesto 'Volevo essere un duro' di Lucio Corsi, al settimo 'Fuorilegge' di Rose Villain, all'ottavo 'La mia parola' di Shablo feat Joshua e Tormento, al nono 'Tu con chi fai l'amore' dei The Kolors, al decimo 'La tana del granchio' di Bresh. Ma l'elenco sanremese prosegue ininterrotto fino alla tredicesima posizione, con 'Anema e core' di Serena Brancale all'undicesimo posto, 'Chiamo io chiami tu' di Gaia al dodicesimo e 'Il ritmo delle cose' di Rkomi al tredicesimo.
Tra gli album l'arrivo di Lady Gaga con 'Mayhem' si piazza in vetta e scalza dalla prima posizione 'Tutta vita', l'album di Olly, che scende al terzo posto, per fare spazio a 'Vasco Live Milano Sansiro', che entra al secondo posto. In quarta posizione 'Dio lo sa - Atto II' di Geolier, in quinta entra direttamente 'Vita_Fusa' dei Coma_Cose, in sesta 'Debi tirar mas fotos' di Bad Bunny, in settima 'Tropico del capricorno' di Guè, in ottava posizione 'Locura' di Lazza, in nona 'È finita la pace' di Marracash e in decima chiude la top ten 'Icon' di Tony Effe. Mentre la compilation di Sanremo 2025 scende dal nono al quindicesimo posto.
Tra i vinili, è primo il 'Vasco Live Milano Sansiro', al secondo posto 'Mayhem' di Lady Gaga e al terzo la compilation 'Sanremo 2025'.
Roma, 14 mar. (Labitalia) - "Questo appuntamento, unico nel suo genere, rappresenta un fondamentale momento di approfondimento per i settori della logistica e del trasporto, offrendo un'opportunità unica di incontro, aggiornamento e confronto sulle sfide e le opportunità che caratterizzano un comparto strategico per i cittadini, per le famiglie e le imprese, con un approccio fortemente connesso alla sostenibilità ambientale". Lo scrive il presidente del Senato, Ignazio La Russa, nel messaggio inviato all'evento di chiusura della quarta edizione di "Let Expo", organizzato da Alis a Verona.
"Se i numeri registrati lo scorso anno rappresentano la migliore e più efficace sintesi della rilevanza del vostro operato - penso ai 400 espositori e alle oltre 100mila presenze complessive -, sono certo che i tanti appuntamenti che caratterizzano il programma di quest'anno, con incontri strategici, conferenze di settore, seminari interattivi, workshop pratici e dimostrazioni innovative, sapranno rappresentare un ulteriore momento di crescita e di affermazione", prosegue La Russa, che conclude: "Nel ribadire il mio plauso per il vostro prezioso contributo in un ambito di particolare rilievo per gli interessi nazionali, anche in relazione alle attuali dinamiche geo-politiche globali, l'occasione mi è gradita per inviarvi i miei più cordiali saluti".
Roma, 14 mar. - (Adnkronos) - In occasione di Didacta 2025 a Firenze, l'evento di riferimento per la formazione e l'innovazione nel settore scolastico, Acer ha ribadito il proprio impegno nel supportare l'evoluzione della didattica attraverso soluzioni tecnologiche all'avanguardia. La partecipazione dell'azienda alla fiera ha offerto l'opportunità di presentare le ultime novità in termini di prodotti e servizi, con un focus particolare su prestazioni, sicurezza, intelligenza artificiale e design.
"La presenza di Acer a Didacta sottolinea l'importanza del settore education, un ambito in cui siamo orgogliosamente leader di mercato," ha dichiarato Angelo D'Ambrosio, General Manager di Acer South Europe. "Didacta rappresenta un'occasione fondamentale per incontrare docenti, studenti e rivenditori specializzati nel mondo scolastico. In questa sede, presenteremo le nostre più recenti innovazioni di prodotto, caratterizzate da prestazioni elevate, sicurezza, funzionalità di IA e design robusto. Queste caratteristiche sono indispensabili per una didattica innovativa ed efficace."