Matteo Renzi e Beppe Grillo si avviano a salire sul ring per una lotta che si annuncia lunga e dura. E uno dei primi round è la riforma del finanziamento pubblico ai partiti, la cui abolizione è il cavallo di battaglia da sempre del Movimento Cinque Stelle. E così Grillo sfida il segretario del Pd: “Per ridurre i costi della politica – scrive sul suo blog il leader del M5s – non è necessaria una legge, è sufficiente che Renzie dichiari su carta intestata, come ha fatto il M5S, la volontà di rifiutare i rimborsi elettorali con una firma”. La sfida è aperta, Grillo riprende le parole dello stesso sindaco di Firenze che ha proposto di avere la proposta per tagliare 1 miliardo di euro i costi della politica. “La parola di Renzie è sacra – replica Grillo – Gli voglio credere. Inizi dai soldi del partito di cui è segretario. Rinunci ai finanziamenti pubblici. E’ sufficiente una firma”.
La lettera, assicura Grillo, “l’ho preparata io” aggiornando “il documento che Bersani si era rifiutato di firmare e che Renzie sicuramente firmerà (qualcuno può dubitarne?) per ufficializzare il rifiuto”. Renzi, spiega Grillo, rinunci “ai 45 milioni di euro, comunque illegittimi. E, per finire l’opera, restituisca il malloppo di circa un miliardo di euro che il Pdmenoelle si è intascato dal 1993, l’anno in cui gli italiani votarono per l’abolizione dei finanziamenti con un referendum. Il M5S ha rinunciato ai finanziamenti pubblici: 42.782.512,50 di euro che appartengono ai cittadini, in virtù di un referendum come ha stabilito la Corte dei Conti“. E Renzi risponde – anche se ermetico – attraverso twitter – risponde: “Caro Beppe Grillo ti rispondo nei prossimi giorni con una sorpresina che ti sto preparando”. Una ‘rivelazione’ che arriverà domenica, all’Assemblea nazionale. Quale sarà la sorpresina? Maria Elena Boschi, responsabile Riforme del partito nella nuova segreteria Renzi, insiste: l’abolizione del finanziamento pubblico diretto ai partiti “è un tema per noi prioritario: alla Camera abbiamo raggiunto un testo che è un buon punto di partenza. E siamo d’accordo sulla necessità di arrivare all’approvazione entro la fine dell’anno con un’accelerazione. Non so quale strumento procedurale il governo deciderà di usare”.
Di certo c’è che la riforma del finanziamento ai partiti è ancora sepolta in commissione Affari costituzionali al Senato, ingolfata dai balletti sulla legge elettorale che non solo non è stata mai modificata, ma della quale i senatori non hanno mai neanche cominciato a parlare. Tanto che Grillo ora ha buon gioco nel dire che “Letta ha raccontato balle su balle sul taglio dei rimborsi elettorali che si è puntualmente intascato a luglio insieme agli altri partiti: una rata di 91 milioni”. Per contro il presidente del Consiglio durante il discorso per la nuova fiducia del Parlamento si era di nuovo speso molto – come nel discorso di insediamento di aprile – sulla questione dei rimborsi elettorali. “Troppo tempo – ha detto alla Camera – è passato dalle proposte fatte dal governo sull’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti e perciò confermo la volontà di “completare definitivamente” questo percorso “entro l’anno con tutti gli strumenti a disposizione”. “Bisogna riflettere – ha proseguito il capo di governo riferito al Movimento Cinque Stelle – sulle forme di partecipazione e di consenso che portano anche a fare l’opposizione al governo”. E, facendo l’esempio delle misure sul finanziamento dei partiti, si rivolge direttamente ai deputati M5s: “Dobbiamo risolvere i problemi, si deve riconoscere che approvare dei provvedimenti è più importante che discuterne soltanto”.
Tuttavia l’ottimismo sembra fare a pugni con le previsioni della presidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, Anna Finocchiaro: “Siamo stati impegnati in una sessione di bilancio molto lunga” spiega. Questa mattina l’Ufficio di presidenza della commissione, che già la settimana scorsa aveva concordato di mettere in calendario il disegno di legge, ha fissato per mercoledì della prossima settimana la relazione sul provvedimento del relatore Luciano Pizzetti (Pd). “Faremo di tutto”, assicura la presidente, perché il via libera della commissione possa arrivare in tempi rapidi. Ma a chi le domanda se ritiene che si possa varare la legge entro l’anno, Finocchiaro risponde che è difficile arrivare al voto in Aula, considerato anche che l’assemblea di Palazzo Madama sarà probabilmente impegnata nell’approvazione della legge di stabilità in terza lettura, dopo il via libera con modifiche della Camera.
L’esame del disegno di legge del governo non è ancora iniziato. Il testo, varato dal governo nel Consiglio dei ministri del 31 maggio, ha avuto il via libera della Camera il 16 ottobre ed è stato trasmesso al Senato il 18 ottobre. Nell’Ufficio di presidenza del 3 dicembre si è convenuto che nelle sedute di questa settimana sarebbe stato iscritto all’ordine del giorno l’esame del provvedimento, che abolisce il finanziamento pubblico diretto, in favore di un sistema basato sulle contribuzioni volontarie dei privati. Ma il testo non figura nelle convocazioni dei prossimi giorni.
Tanto che ora il governo sta pensando addirittura a un decreto per mantenere l’impegno e le continue promesse di Letta. Il presidente del Consiglio non usa la parola “decreto”, ma è proprio quello lo strumento che si sta valutando a Palazzo Chigi. Anche se l’ipotesi viene accolta con tanta freddezza e molte perplessità in Parlamento.
L’abolizione del finanziamento pubblico diretto ai partiti è stato uno dei primi atti del governo Letta. Il 31 maggio è stato varato un ddl per il passaggio a un sistema basato sulle donazioni dei privati. Con non poche tensioni all’interno della maggioranza, quel testo, modificato, è passato in prima lettura alla Camera a metà ottobre. Ma da quel momento non se n’è avuta più notizia. Due mesi dopo, l’esame al Senato neanche è iniziato. Il governo userà “tutti gli strumenti a disposizione”, dice Letta. Il che vuol dire, spiegano fonti di Palazzo Chigi, con ogni probabilità un decreto che recepisca il testo approvato in prima lettura alla Camera, con minime correzioni.
Ma l’ipotesi viene accolta da un’eloquente freddezza in Parlamento. “Nulla in contrario”, dice il vice Angelino Alfano. Ma il senatore di Ncd Andrea Augello osserva che “un governo forte non ha bisogno di un seguire con un decreto gli umori della piazza”. Il decreto sarebbe “un atto ulteriore di protervia dell’esecutivo verso un Parlamento esautorato”, ribatte il senatore M5S Nicola Morra. Una “forzatura non utile”, secondo il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera, Francesco Paolo Sisto (Forza Italia). Ma anche tra i democratici non sono tutti convinti. “L’ho detto tante volte – riflette Ugo Sposetti, ex tesoriere per anni dei Ds – Questo ddl è un errore e a lisciare il pelo al populismo non si va da nessuna parte. Se poi il presidente del Consiglio pensa si possa fare un decreto, rispondo che non vedo l’urgenza”.