Cancellare i contratti precari, ma rendere più facili i licenziamenti. E’ il cuore della ricetta di Matteo Renzi per l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, la colonna di quel “Job Act” di cui il neosegretario del Pd parla da mesi e a cui ora sta lavorando di lima il deputato renziano Yoram Gutgeld. L’idea centrale, riassume oggi il Messaggero, è che per i giovani al di sotto di una certa soglia di età (ancora da stabilire) siano cancellati i contratti a progetto per far posto a contratti di assunzione a tempo indeterminato. Ma il datore di lavoro avrebbe la possibilità di licenziare in qualsiasi momento senza obbligo di reintegro, a fronte di un indennizzo. Che può anche essere fissato in anticipo nel contratto di assunzione. Una forma di “lavoro indeterminato-flessibile“, l’ha definita Gutgeld. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori resterebbe invece in vigore per le persone già assunte. In attesa che il Job Act sia messo nero su bianco, le prime reazioni non sono benevole, almeno dal fronte del lavoro. Con una critica comune, dalla Cgil alle organizzazioni precarie: il lavoro si crea con l’uscita dalla crisi economica, non con le riforme sulla carta.
“Renzi parla della sovrastruttura, ma non dice come rilanciare gli investimenti pubblici e privati“, afferma Vincenzo Scudiero, segretario nazionale della Cgil. “Parlare ora di regole equivale a parlare d’altro”. Finora, aggiunge, “chi ha voluto usare l’articolo 18 come argomento propagandistico ha fallito. L’articolo 18 vale per pochi lavoratori, le ricette ci vogliono per la crescita, non per le regole contrattuali”. E i giovani, secondo la Cgil, devono essere tutelati non fa leggi ad hoc ma “dall’inclusione nei contratti collettivi e dal potenziamento delle opportunità che già ci sono, come l’apprendistato. La flessibilità si è rivelata un’illusione”.
E se l’Ugl, con il segretario Giovanni Centrella, parla di “brutali e fumose semplificazioni”, è fredda anche la Cisl: “La flessibilità è ormai d’obbligo nei sistemi produttivi, ma va pagata più del lavoro non flessibile: questa è la differenza”, ha commentato il segretario confederale Raffaele Bonanni. “Se Renzi accetta questa sfida, è la nostra da molti anni”. Per Bonanni, la flessibilità “ha bisogno di strumenti per la maternità, per la previdenza e per la malattia, che possono essere sostenute solamente se i salari sono più alti e quindi le contribuzioni sono più alte”.
Il problema, insomma, non è il contratto, è il reddito. Il mondo dei lavoratori “atipici” è per definizione frammentato, ma anche dallo storico collettivo San Precario di Milano la contestazione più forte al piano Renzi è questa: “Dopo la legge Biagi il potere contrattuale dei lavoratori si è continuamente abbassato, insieme alle retribuzioni, è così che siamo arrivati a stipendi da 800 euro al mese e a un potere d’acquisto paria quello dl 1972″, afferma Massimo Laratro, avvocato del collettivo specializzato in cause di lavoro. Con riforme che intervengono solo sui contratti, continua, si creano soltanto nuovi “working poors”, persone che lavorano a tempo pieno “ma a fine mese non arrivano ai mille euro”. Nelle vertenze che segue, l’avvocato di san Precario vede situazioni in cui “nella logistica e nelle pulizie ci sono persone pagate 2,99 euro l’ora, mentre negli Stati Uniti i lavoratori dei fast food stranno chiedendo un salario inimo di 15 dollari”.
Il calo di potere contrattuale porta anche al tracollo degli indennizzi, il punto forte del Job Act di Matteo Renzi per controbilanciare la perdita di tutele di fronte al licenziamento. “L’articolo 18 vale per un terzo dei lavoratori, ma se lo tolgono gli indennizzi pagati ai lavoratori scenderanno a 7-8 mensilità, calcolate sui bassi stipendi che abbiamo visto, invece delle attuali 12-24”, spiega ancora Latraro. E allora: “Oggi”, conclude, “l’unica vera ricetta è il reddito di base incondizionato, da garantire a tutti, che lavorino o meno. Non è assistenzialismo, è l’unico modo per ripagare il tempo che i precari impiegano nelle ore lavorate ma non retribuite, nella disoccupazione tra un lavoro e l’altro, nella ricerca di nuova occupazione”.
Ilfattoquotidiano.it ha dedicato diverse inchieste alle condizioni dei lavoratori precari, raccogliendo tra i lettori anche le storie non convenzionali di giovani medici, architetti, avvocati. Per loro la ricetta di Renzi cambierebbe qualcosa? “Non toccherebbe in nessun modo la pratica legale prima dell’esame di abilitazione”, che in molti studi si trasforma in una sorta di schiavitù, come denunciato da molti nostri lettori, afferma Alessio De Simone, giovane praticante. “Ma una volta fatto l’esame, l’incentivo ad assumere a tempo indeterminato può essere utile. L’importante è che la maggiore libertà di licenziare non vada contro i diritti di base, per esempio per l’arrivo di una maternità”.
A favore del nuovo segretario del Pd prende posizione il giuslavorista della Luiss Roberto Pessi. “L’ipotesi che avanza Renzi, sulla scorta del pensiero di Ichino – spiega Pessi ad Adnkronos/Labitalia – sembra quella di un contratto unico di inserimento”. Ma lo scoglio, appunto, resta quello “della risolubilità del rapporto di lavoro, l’articolo 18”. Immaginando tutele progressive per i lavoratori, che si consolidano man mano che prosegue la permanenza nell’occupazione, è necessario infatti rendere ‘solubile’ il matrimonio tra impresa e lavoratore, anche prevedendo forti risarcimenti in denaro in caso di uscita”. Altrimenti, si dice convinto Pessi, “il mercato del lavoro non decollerà”.
Il tema sollevato da Renzi non è facile da digerire neppure al’interno del Partito democratico appena conquistato: “L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non va abrogato”, ha detto per esempio Cesare Damiano, ex ministro e attuale presidente della Commissione lavoro della Camera, “ma esteso a protezione del lavoro dei giovani nel passaggio dalla buona flessibilità alla stabilità”.