Questa volta nessuna telefonata accalorata. Nessun “Non è giusto!”. Questa volta nessuna garanzia: “Qualsiasi cosa serva, non fate complimenti!”. Questa volta sono state sufficienti 15 righe. Le 15 righe di un postino. Quindici righe che riferiscono – sic et simpliciter – le note di tre Procure. Quindici righe, cioè, vecchie come il cucco. Vecchie nel momento stesso in cui sono state scritte. “Il caso Moby Prince è stato archiviato” risponde il ministro guardasigilli ad alcuni deputati che le chiedevano se il suo dicastero e quello della Difesa avevano intenzione di fare qualcosa dopo che accanto ai numerosi aspetti ancora non chiari, erano emerse alcune novità nonostante una certezza giudiziaria sulla più grande tragedia della marineria italiana in tempo di pace (140 morti tra equipaggio e passeggeri) dovrebbe esserci, dopo l’archiviazione nel 2010 dell’inchiesta bis della Procura di Livorno (la prima era finita anche peggio).

Una storia ancora strangolata da dubbi, sospetti, illazioni perché non sempre il lavoro dei magistrati sembra avere dato una risposta chiara e convincente. Ma niente: “Il caso Moby Prince è stato archiviato” fa scrivere la Cancellieri. Grazie, lo sapevano tutti dalla primavera del 2010. Ma il ministro questa volta non si dev’essere mossa a compassione. Il ministro guardasigilli ha impiegato 8 mesi per rispondere per iscritto all’interrogazione di 9 deputati di Sel che chiedevano cosa intendevano fare i ministeri della Giustizia e della Difesa dopo che alcuni aspetti – nonostante due inchieste della magistratura – non siano stati ancora chiariti e che anzi ci siano possibili elementi nuovi da indagare.

La Cancellieri è stata comunque più solerte del collega della Difesa Mario Mauro che – spesso impegnato ad “armare la pace” con gli F35 o portaerei trasformate in “fiera dei siluri” e in scissioncine dentro Scelta Civica – non ha ancora risposto. “Il Guardasigilli – replica il deputato di Sinistra ecologia e libertà Michele Piras, primo firmatario dell’interrogazione – ha scelto la strada dell’omertà, umiliando il suo altissimo ruolo istituzionale e offendendo la memoria di 140 morti ed il diritto sacrosanto delle famiglie delle vittime alla verità ed alla giustizia. Penso che il ministro dovrebbe vergognarsi per questa manifestazione cinica di indifferenza“. Piras aggiunge che non finirà qui.

Dunque per il governo Letta non c’è bisogno di un supplemento d’indagine o di qualsiasi altra iniziativa sulla sciagura del 1991. Anzi: non c’è nemmeno proprio di che parlare. Lo stesso esecutivo pronto a intervenire quando a risuonare sono i moniti del Colle, in questo caso lascia cadere nel vuoto l’appello della seconda carica dello Stato che il 10 aprile scorso, in occasione del 22esimo della sciagura di Livorno, parlò del bisogno di costituire una commissione d’inchiesta sulle stragi irrisolte del Paese. Il presidente del Senato Piero Grasso, in particolare, parlava di “rigoroso rispetto delle norme di sicurezza” perché tragedie come quella del Moby Prince non accadano più. “Mi auguro che anche il Parlamento sappia contribuire a questo obiettivo”. Il Parlamento di sicuro parla d’altro. La risposta del governo, invece, è quella della Cancellieri: “L’inchiesta è stata archiviata”.

Parole, quelle di Grasso, che sembravano aver finalmente acceso anche i riflettori della politica che su questo disastro del mare si è sempre dimostrata poco all’altezza. “E’ un errore umano” decise per esempio la mattina dell’11 aprile il ministro della Marina Mercantile Carlo Vizzini. Infatti ci sono volute due inchieste, un processo, indagini difensive, libri, trasmissioni tv. E montagne di dubbi sono rimaste lì, insieme ai morti senza un colpevole. Eppure l’errore umano è anche tra le conclusioni dei pm livornesi al termine dell’inchiesta bis avviata nel 2006 dopo l’esposto dei familiari di Ugo Chessa, il comandante del traghetto ingoiato dalle fiamme dopo la collisione con la gigantesca petroliera Agip Abruzzo ancorata a una manciata di miglia dal lungomare di Livorno.

“Ecco una nuova bastonata da parte dello Stato – commenta Luchino Chessa, uno dei figli del capitano – La risposta della ministra Cancellieri che non è altro che una breve ricostruzione asettica riguardo alla recente riapertura delle indagini e alla successiva chiusura tombale che ha tarpato ogni velleità di ricerca processuale della verità che noi familiari delle vittime – in particolare io e mio fratello Angelo – stiamo cercando di raggiungere. E’ triste rendersi conto della insignificanza e del poco peso dell’intervento della ministra Cancellieri e come familiare delle vittime mi sento offeso e sempre meno tutelato dallo Stato”. Di più: “Sempre di più mi vergogno di essere cittadino italiano. Sappia la ministra e tutti coloro che vivono nell’indifferenza e infine tutti quelli che in ogni modo ostacolano la ricerca della verità che noi familiari siamo sempre più determinati ad andare avanti e a non fermarci davanti ad alcun ostacolo”.

Tanto è vero che solo grazie alla pervicacia di Luchino e Angelo Chessa – e dello studio di ingegneria Bardazza, da loro incaricato – un pezzo di verità ha perso opacità solo a 22 anni di distanza dalla sera del 10 aprile 1991. Un fatto che nella primavera scorsa ha raccontato anche ilfattoquotidiano.it. In breve Theresa – una nave che, mezz’ora dopo la collisione, si allontanò dalla rada del porto di Livorno a tutta velocità – non era che la nave militarizzata americana Gallant II, che – insieme ad altri mercantili – stavano riportando armi nella base di Camp Darby dopo la fine della prima guerra del Golfo. Elemento che – se acclarato anche da una magistratura – solleverebbe l’ennesima serie di domande su quella che fu chiamata la “Ustica del mare“: perché dalla Gallant II usarono quel nome in codice, perché non abbia usato il normale canale radio, come resta da spiegare il fatto che i periti del tribunale non si siano mai preoccupati di analizzare a fondo le registrazioni. “This is Theresa, this is Theresa for the ship one in Livorno anchorage, I’m moving out, I’m moving out!”. Theresa chiama la “nave uno” all’ancora nella rada di Livorno, mi allontano, mi allontano. La Procura non riuscì mai (né nella prima né nella seconda inchiesta) a capire da dove venisse quella voce registrata sul canale 16 d’emergenza di Livorno Radio. Né a individuare Theresa e “ship one”. L’unica certezza che arrivò dai pm è in nessuno dei due casi si trattava della 21 Oktobar II, il peschereccio che fece parte della flotta della Shifco, coinvolto in un presunto traffico illecito di armi tra l’Italia e la Somalia, al centro delle inchieste di Ilaria Alpi. Mentre per lo studio Bardazza di Milano il dato è certo: quella voce è del comandante Theodossiou, sulla Gallant II.

Ma il ministro della Giustizia resta al 2010. Aggiunge solo che sul presunto smaltimento dei rottami del Moby in una discarica di Castelvolturno, così come aveva detto Roberto Saviano, non ci sono riscontri né alla Procura di Napoli né alla Direzione Distrettuale Antimafia. Talmente poco c’era in quelle 15 righe che lo stesso ministro Cancellieri ha deciso di non portarle neanche in Aula: la replica è arrivata nella casella postale di Piras a Montecitorio. Insieme alla risposta a un’altra interrogazione sul distaccamento dei vigili del fuoco di Bono. Quello valeva la tragedia del Moby Prince: 15 righe in una casella postale. Come per i disagi di un distaccamento di provincia.

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