Il Monte dei Paschi di Siena rischia di tornare presto un problema pubblico. E’ questa la principale conseguenza della delibera degli azionisti della banca senese che hanno bocciato la proposta del cda presieduto da Alessandro Profumo di varare a gennaio l’aumento di capitale da 3 miliardi di euro necessario per la restituzione allo Stato dei cosiddetti Monti bond come convenuto con la Commissione europea a settembre. Ha votato contro il 69,06% del capitale presente in assemblea, cioè il 49,3% dei soci di Rocca Salimbeni. Quindi, come previsto, la bocciatura della proposta di Profumo e del direttore generale Fabrizio Viola è stata portata avanti con il voto quasi esclusivo della Fondazione Mps cui fa capo il 33,5% della banca toscana.
Forte della sua rappresentatività, l’ente è poi riuscito a far passare la sua proposta di procedere alla ricapitalizzazione soltanto nel mese di giugno: ha votato a favore l’82,04% del capitale presente in assemblea, mentre hanno votato contro o si sono astenuti complessivamente azionisti che detengono poco più del 2% della banca e non ha partecipato alla votazione il 15,67% del capitale. Una scelta che senz’altro concede più fiato alla fondazione guidata da Antonella Mansi e gravata da 339 milioni di debiti accumulati negli anni scorsi con una dozzina di banche nel tentativo di mantenere il controllo del Montepaschi. La ricapitalizzazione immediata, infatti, avrebbe tagliato la strada all’ente che sta trattando a 360 gradi una soluzione per la sua sussistenza, riducendo drasticamente il valore del suo unico asset, il Monte appunto.
Altrettanto non si può dire per Mps e per lo Stato italiano. Per la banca il rinvio dell’aumento di capitale e, quindi, della restituzione dei Monti bond, l’aiuto di Stato ottenuto dopo mille tortuosità dal governo dell’ex rettore della Bocconi e convalidato dal successore Enrico Letta, significa 120 milioni di euro di dividendi da staccare in più al Tesoro che lo scorso anno ha integralmente sottoscritto le obbligazioni. Per Saccomanni, però, l’incasso delle cedole è un misero antipasto in confronto alla prospettiva che offriva la tempistica prevista da Profumo e Viola, cioè la restituzione integrale dei 3,3 miliardi di aiuti di Stato entro febbraio.
E ancora peggio potrebbe andare se le fosche previsioni di Profumo, le cui dimissioni sono date per scontate con tanto di lista dei potenziali successori, dovessero rivelarsi esatte. Secondo l’ex numero uno di Unicredit, a suo tempo messo in un angolo dalle fondazioni azioniste della banca milanese sempre per un problema di controllo, un rinvio della ricapitalizzazione significa renderla impossibile. La conseguenza? L’ingresso dello Stato, via conversione del debito in titoli, in un Monte dei Paschi che vale sempre meno. E, in contemporanea, lo sfumare definitivo della restituzione degli aiuti di Stato.
PROFUMO: “IL PALIO E’ TRA SIENA E I CONTRIBUENTI” – “Entriamo in un campo di incertezza, perchè non sappiamo che cosa succede da qui al prossimo maggio”, aveva detto il banchiere in assemblea a proposito del rinvio della ricapitalizzazione. “Oggi abbiamo la certezza che si possa realizzare l’aumento di capitale, domani si entra nell’incertezza: oggi c’è un consorzio di garanzia che garantisce la riuscita dell’aumento, domani andrebbe ricreato il consorzio ma non sappiamo se sarà possibile e a che condizioni. Oggi le condizioni sono favorevoli per noi. La volatilità dei mercati è ancora rilevante e non sappiamo che cosa succederà da qui a maggio”, aveva aggiunto. Per poi ricordare come l’aumento di capitale a gennaio avrebbe risolto anche il tema del pagamento degli interessi sui Monti bond e, quindi, invitare a tenere presente anche il quadro politico: “La situazione politica in Italia è sempre piuttosto instabile e certo non ci auguriamo che possa accadere nulla di particolare. Certamente non sappiamo cosa accadrà da qui a maggio quanto ci saranno anche le elezioni europee”.
“Da dove arrivino i 3 miliardi mi interessa poco: se la banca è ben gestita e arrivano i 3 miliardi resta a Siena, altrimenti sparisce”, aveva poi detto il banchiere rispondendo alle preoccupazioni del sindaco di Siena, Bruno Valentini, sull’arrivo di capitali stranieri. “La verità è che in Italia siamo troppo capaci di attrarre investimenti stranieri”, ha ironizzato dicendosi “stupito” che anche la sezione di Siena di Confindustria si sia lamentata circa il possibile arrivo di investitori stranieri. ”Non c’è nessun Palio, se non con i contribuenti italiani”, ha quindi rimarcato senza sbilanciarsi sul tema delle sue dimissioni. ”Queste sono decisioni che si assumono a sangue freddo e nei luoghi deputati. Non ho nessuna anticipazione da fare agli azionisti”, ha detto ricordando che per gennaio è in calendario una riunione del consiglio di amministrazione della banca. Del resto queste cose sono solitamente oggetto di delicate trattative, come Profumo sa bene per averlo vissuto in prima persona nel settembre del 2010 quando ha lasciato Unicredit dopo una giornata di trattative costellata di annunci e smentite e con in tasca una liquidazione da oltre 40 milioni di euro.
L’AD INSODDISFATTO DEI RISULTATI DELLA BANCA – “Abbiamo messo la banca in sicurezza sotto profilo della liquidità e se ci fosse stato l’aumento di capitale a gennaio l’avremmo messa in sicurezza anche sul piano patrimoniale”, ha invece commentato Viola al termine dell’assemblea. “Oggi dobbiamo prendere atto che una parte del piano di ristrutturazione è stata rinviato. Il nostro percorso va comunque dritto al risanamento della banca”, ha aggiunto. Nel corso dell’assise l’amministratore delegato aveva precisato che il consorzio di banche che aveva garantito l’aumento di capitale a gennaio 2014 “si è mosso secondo la prassi del mercato”. C’è stata “una due diligence (l’analisi dello stato di salute di un’azienda, ndr) che ha valutato positivamente la situazione dell’istituto e anche le condizioni di mercato”. Il consorzio di garanzia, inoltre, ha ricevuto “le assicurazioni necessarie da investitori istituzionali” per il raggiungimento dell’obiettivo dell’aumento di capitale.
Lo stesso Viola aveva poi detto ai soci di non essere “soddisfatto dei risultati di questi ultimi due anni nelle trimestrali, ma questi risultati vanno indubbiamente inquadrati” in quella che era la situazione di Banca Mps ereditata dalla passata gestione di Giuseppe Mussari ed Antonio Vigni. “Il punto di partenza che abbiamo trovato all’inizio del 2012 era caratterizzato da alcuni problemi, a partire dalla carenza di capitale”, aveva osservato ricordando che nell’ottobre 2011 Banca Mps è “rimasta in piedi come soggetto funzionante grazie all’intervento straordinario della Banca d’Italia che ha dato liquidità alla banca”. Tra i “problemi strutturali” che l’istituto sconta ancora dalla passata gestione c’è “un’eccessiva esposizione su attività finanziarie che non rendevano, o rendevano pochissimo oppure in alcuni casi costavano”, come le operazioni sui derivati Santorini e Alexandria, oltre a una struttura del portafoglio crediti “con circa il 60% di mutui o finanziamenti a medio lungo termine”.
LA FONDAZIONE SI AUGURA CHE NON CI SIANO CONSEGUENZE – “Non ho la sfera di cristallo e mi auguro che non ci sia nessuna conseguenza. Sono però convinta che oggi sia stata chiarita definitivamente quella che era l’incertezza sull’aumento di capitale che noi abbiamo sempre appoggiato”, ha invece commentato il presidente della fondazione Mps sostenendo che “da noi non c’è stata nessuna sfiducia nei confronti dei vertici della banca”. Non solo. “Oggi non ci sono nè vinti nè vincitori”, ha aggiunto Mansi precisando che “da tempo avrei voluto che questa situazione fosse spersonalizzata perchè tutti dobbiamo avere grande attenzione per la banca. Se qualcuno pensa che non c’è stato un confronto tra noi sbaglia. Poi non sempre è possibile trovare una mediazione. Ci sono legittime posizioni che talvolta possono non essere conciliabili”.
“Lasciamo ai soci valutare quale sia il vero interesse della banca, nell’alternativa che si pone fra l’aumento di capitale nella tempistica che propone la Fondazione e il rinvio della decisione ad una nuova eventuale assemblea futura. Confidiamo che la vostra decisione sarà quella più opportuna, che non pregiudica le sorti dell’istituto bancario”, aveva detto in assemblea esprimendo per la fondazione Mps “il forte auspicio di mantenere comunque un ruolo di azionista rappresentativo all’interno della futura compagine azionaria della banca”. Poco prima aveva altresì ammesso che “la Fondazione, così come tutti gli azionisti, subirebbe danni irreparabili dalla conversione in azioni dei titoli sottoscritti dal governo. Mentre la banca, detto per inciso, continuerebbe ad esistere”, ricordando che “gli amministratori vi sarebbero costretti comunque non prima degli inizi del 2015, verificata la definitiva impossibilità di effettuare l’aumento di capitale o anche prima nell’ipotesi in cui risultasse compromesso l’equilibrio economico della banca; ipotesi che ad oggi, alla luce delle informazioni rese disponibili al mercato, non sembra essere prevedibile”.
“L’accelerazione dell’operazione di aumento del capitale avrebbe definitivamente compromesso la possibilità di continuare a farci carico di quelle utilità sociali che sono l’essenza della nostra natura fondazionale”, è stata la motivazione chiave del presidente dell’ente che ha chiuso il 2012 con un disavanzo di 193,7 milioni di euro dopo il rosso di 331,7 milioni del 2011. Conti che negli ultimi anni hanno impedito alla Fondazione di far fronte ai suoi doveri istituzionali imponendo una drastica riduzione delle erogazioni al territorio, sua mission statutaria. Eppure secondo Mansi “qui dovremmo parlare non di conflitto di interessi ma semmai di conflitto di doveri. Per noi la tutela dell’integrità del patrimonio non è un optional: non potete chiederci di far crollare proprio noi l’edifico che ci è stato dato dalla legge”.
Quanto allo stato di salute dell’ente, “gli attuali organi della Fondazione, insediati da appena tre mesi, si sono trovati subito ad affrontare una situazione particolarmente grave e complicata, su cui peraltro sono state tempestivamente avviate le opportune verifiche tecniche, anche per accertare eventuali profili pregressi di responsabilità”. Mentre per la banca “è veramente molto difficile pensare che il terzo gruppo bancario italiano non riesca a trovare nella seconda finestra, dal maggio 2014, un consorzio di banche in grado di sostenere l’aumento, oltretutto disponendo di una generosa dotazione di commissioni. E’ ancor più difficile pensare che la realizzazione dell’aumento non sarebbe concretamente più facile se il suo più rilevante azionista, attualmente impossibilitato a seguire l’aumento, avesse nel frattempo realizzato un’importante discesa nella propria quota di partecipazione”. Precisazioni che però non hanno persuaso Profumo, per il quale “la decisione di oggi dell’assemblea degli azionisti è in linea con quella che portò alla difesa del 51% del capitale della banca, che si è dimostrata errata”.
IL PRIMO CONTO IN ARRIVO – Poche le certezze in attesa del giudizio del tempo. Tra queste il fatto che nel 2013 Mps tra Monti e Tremonti bond spenderà 330 milioni solo di interessi (30 legati a due mesi di Tremonti bond, 299,7 milioni relativi ai Monti bond attivi dal primo marzo). Nel 2014 potrebbe anche andare peggio, visto che il tasso di interesse salirà dal 9 al 9,5% e la massa di capitale sarà immutata a 4 miliardi per almeno 5 mesi, per un esborso di 161 milioni. Approvando l’aumento di capitale da 3 miliardi oggi, e facendolo partire al primo febbraio 2014 si sarebbero risparmiati 95 milioni in 4 mesi, se i tempi saranno più lunghi ogni mese si pagheranno poi 30 milioni in più. Se poi l’aumento di capitale non dovesse essere approvato a fine maggio, 200mila risparmiatori vedranno slittare di mesi o anni la loro cedola sul subordinato decennale Upper Tier 2, che nel 2008 portò 2 miliardi nelle casse della banca per finanziare l’acquisizione di Antonveneta.